Il Canto del miele e un menu andaluso per ricordare il poeta più amato del ‘900
Federico Garcia Lorca a 110 anni dalla nascita
Io canto la Spagna e la sento come il centro del mio essere,
ma soprattutto io sono un uomo del mondo e fratello di tutti.
Federico Garcia Lorca
A MenSA piacciono gli anniversari. Questo ormai è lampante. Possiamo anche vantarci di avere offerto tra il 1997 e il 1999 un trittico di spettacoli gastronomici, a Bologna e Budrio, dedicati al Centenario dell’illuminazione di Via Indipendenza, a Totò, a Duke Ellington, pieni di buon cibo, di cultura e intrattenimento di qualità. Cercateli su MenSA, li troverete.
In questo numero abbondiamo. Il terzo che vi proponiamo, oltre a Tex Willer e Lucio Battisti, è, pressati come siamo dal tempo tiranno, solo un breve cenno, utile più che altro a presentare il menu granatino e andaluso di questo numero.
Avevamo già pensato a quest’omaggio. Per pura coincidenza, proprio in questi giorni si discute sull’opportunità di riaprire la fossa comune in cui dovrebbero trovarsi i resti del grande poeta, forse il più grande, certamente il più noto e amato dei poeti del XX secolo, sottrattoci molto precocemente da uno dei tanti crimini di cui i fascisti di tutto il mondo, dagli anni Venti in poi del ‘900, si sono macchiati.
E ritrovarne gli epigoni al governo (alcuni sinceramente revisionisti e pentiti, altri solo passati da una lavanderia, giusto per ripulirsi gli abiti), per ora da noi, presto in Austria e chissà dove ancora, ci fa domandare una volta di più dove siano finite “dell'umane genti le magnifiche sorti e progressive...” di leopardiana memoria: "Quando i militari presero il potere, la sua esecuzione fu solo una questione di tempo – un omosessuale di successo, liberale non poteva essere tollerato nella Spagna di Franco” (Ian Gibson, biografo di Lorca).
Per tornare sul nostro terreno, niente ricerche sui riferimenti o sui gusti alimentari di Federico dunque, solo un omaggio alla sua terra, che gli ha dato la vita e la morte, Granada e l’Andalusia.
Prima, però, l’omaggio alla sua poesia, attraverso un testo che canta la dolcezza, attraverso il liquido che ne è il simbolo, il miele, alimento “divinizzato” negli splendidi versi di Lorca, grande cantore della vita e della morte, del dolore e dell’amore.
Il canto del miele
II miele è la parola di Cristo,
l'oro fuso del suo amore.
La perfezione del nettare,
la mummia della luce del paradiso.
L'arnia è una stella casta,
pozzo d'ambra che alimenta il ritmo
delle api. Seno delle campagne
vibrante d'aromi e di ronzii.
Il miele è l'epopea dell'amore,
la materialità dell'infinito.
Anima e sangue dolente dei fiori
condensata attraverso un altro spirito.
(Così il miele dell'uomo è la poesia
che sgorga dal suo cuore dolente,
da un favo con la cera del ricordo
formato dall'ape più segreta).
Il miele è la bucolica lontana
del pastore, la zampogna e l'olivo,
fratello del latte e delle ghiande,
regine supreme del secolo d'oro.
Il miele è come il sole del mattino,
ha tutta la grazia dell'estate
e l'antica frescura dell'autunno.
È la foglia appassita ed è il frumento.
O divino liquore dell'umiltà,
sereno come un verso primitivo.
L'armonia tu sei incarnata,
la geniale essenza del lirismo.
In te dorme la malinconia,
il segreto del bacio e del grido.
Dolcissima. Dolce. Questo è il tuo aggettivo.
Dolce come il ventre delle donne.
Dolce come gli occhi dei bambini.
Dolce come le ombre della notte.
Dolce come una voce.
O come un giglio.
Per colui che porta la pena e la lira
sei il sole che illumina la strada.
Equivali a tutte le bellezze
al colore, alla luce, ai suoni.
O divino liquor della speranza,
dove la perfezione dell'equilibrio
raggiungono l'anima e la materia unite
come il corpo e la luce di Cristo nell'ostia.
E l'anima superiore è dei fiori.
O liquore che hai unito queste anime!
Chi ti gusta non sa di inghiottire
l'essenza dorata del lirismo.
Granada, novembre 1918.
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