Editoriale
I lampascioni di Angela: una rivelazione sulla via di... Foggia
di Giancarlo Roversi
Incontrai i lampascioni quasi di sfuggita durante una vacanza in Gargano una trentina di anni fa. Certamente l’impatto fu piacevole, mi piacquero per la loro croccantezza, per l’intrigante gusto amarognolo, ingentilito appena dall’abbraccio del buon olio pugliese, ma sì anche per la loro inaspettata eleganza, che nulla aveva da spartire con l’aggressività delle cipolle, meno nobili e appartenenti a un’altra famiglia, più plebea, volgare. Le cipolle del resto le coltivano tutti e in abbondanza. Il lampascione no. Il lampascione non ha mai rinunciato alla sua selvatichezza, alla sua appartata dimora nella frescura ai bordi dei fossi, alla sua solitudine orgogliosa. Un cibo certamente dei poveri, ma di aristocratiche origini. Quindi guai a chiamarlo cipollotto amaro, gli si mancherebbe di rispetto perchè non ha alcun legame di parentela col bulbo della crucifera.
Dopo quel primo felice approccio garganico i lampascioni uscirono dal mio orizzonte. Anche perchè nella mia città, Bologna, nessuno allora li vendeva. L’occasione per riscoprirli in tutta lo loro straordinaria versatilità culinaria fu, vari anni più tardi, il fortunato incontro con Rino Pensato, un giovane intellettuale foggiano traslocato a Bologna per prendere servizio alla Biblioteca Universitaria. Ne nacque subito uno stimolante e fecondo sodalizio non solo culturale ma anche culinario, grazie ai comuni interessi per la storia alimentare e per la gastronomia convissuta sul campo e argomentata. Ad arricchirne i contenuti fu la presenza, sia pragmatica che dottrinale, di Guido Pensato, fratello di Rino, anche lui colto bibliotecario e scrittore con la passione per la cucina, vissuta come riscoperta, preparazione e trattazione di piatti autentici, spesso in penombra, della tradizione foggiana e del Tavoliere.
Quanti incontri imperniati sulla cultura del cibo sono andati in scena in casa di Rino e di altri amici con la presenza a tavola di un parterre de roi di varie intellettualità non soltanto bolognesi. Ospite quasi fisso Francesco Guccini, sempre attento sia alla qualità e originalità del cibo ammannito che a quella della conversazione imbastita dai commensali. E spesso le sue canzoni e quelle del repertorio internazionale e italiano del passato arricchivano di nuove vibrazioni la lieta atmosfera conviviale. Resa ancora più stimolante dalla scoperta di nuove specialità culinarie sconosciute e i cui nomi mi sarebbero risuonati familiari: i marascioli, le cartellate, i carduncelli, i troccoli, le olive cunzate, le orecchiette di grano arso (con alle loro spalle tutta la loro storia di antica miseria), ma anche pane straordinario caciocavalli dai sapori garbati, le salsicce al finocchietto del Subappennino Dauno...
Ma a regnare sovrani erano i lampascioni, cucinati in graticola, oppure fritti, o lessati e conditi in insalata. E soprattutto quelli semplicissimi sott’olio, quelli che venivano religiosamente portati da Foggia da Guido e Rino o da amici e parenti di passaggio. La loro comparsa in tavola, accompagnata dall’inconfondibile fragranza che esalava dai piatti di portata, suscitava un’accoglienza entusiastica. cui seguiva una specie di arrembaggio con le forchette che si avventavano sui bulbi rosacei in attesa di essere addentati, per offrire tutte le loro irresistibili sfumature di sapori.
Autrice di questa vera opera d’arte culinaria Angela Pensato, mamma di Rino e Guido, una signora dal portamento distinto, di grande garbo e bon ton. Di non molte parole e sempre misurata e garbata nel discorrere. Si provava un senso di armonia a starle assieme. Lo ricordo ancora bene perchè per qualche anno abitò a Bologna per stare vicina a figli e nipoti. Fu un periodo d’oro per i nostri ormai codificati incontri conviviali perchè a trarre il meglio dalla “cambusa” pensava lei. Cucinava quasi in souplesse piatti semplici apparentemente fatti con pochi ingredienti, ma straordinariamente pregnanti di una vera apoteosi di sapori e profumi. E preparava con la consueta maestria i suoi lampascioni, quelli fatti come Dio comanda, con la crocetta incisa sul sedere di ognuno prima di immergerli nell’olio.
E anche quando Angela, non resistendo al richiamo della sua terra natale, se ne tornò a Foggia, i lampascioni, grazie a periodici rifornimenti dal sud, non mancarono mai nei nostri appuntamenti a tavola. Forse proprio grazie alle loro stimolanti virtù scaturivano idee preziose e progetti ambiziosi, come il premio Ghostbuster che per tanti anni sotto la presidenza di Francesco Guccini ebbe larga eco in campo letterario.
E anche negli anni più recenti il flusso di lampascioni, anche se più rapsodico, non si era mai interrotto.
Rino mi diceva pochi giorni fa che a casa sua c’era ad attendermi un vaso che la mamma aveva fatto apposta per me e che lui aveva prelevato da casa durante le vacanze di Natale.
“Caro Rino presto arrivo a prenderlo, figurati se te lo lascio”.
Invece ora quel vaso ha il sapore di una reliquia da conservare gelosamente e da venerare. Per cui Rino serbalo tu.
Angela infatti se n’è andata a prendere per la gola il Padre Eterno e gli angeli con le sue leccornie inimitabili. A noi resta un ricordo nostalgico. E il cordoglio per la perdita che ha colpito i figli Rino, che è vicedirettore di questa rivista, e Guido, che invece ricopre il ruolo di direttore editoriale.
Chi scrive e tutti i redattori e collaboratori di MenSA Magazine si stringono idealmente a loro nel ricordo della mamma.
Cara Angela i Suoi lampascioni restano per me indimenticabili. Provi a prepararne qualche vaso anche lì su per gli spiriti buoni che siedono alla mensa divina. Quando li avranno assaggiati si sentiranno davvero... beati !
Di seguito un omaggio degli amici foggiani
C'era una volta... i fagotti di Angela
Non ho parole.
Quando muoiono le mamme, non ci sono parole.
Le parole finiscono. Finisce la nostra prima parola.
Le mamme ci lasciano: e per la prima volta ci accorgiamo che dobbiamo camminare soli.
Certo, lo facciamo da quando ci crediamo adulti. A volte anche troppo presto. Quando ci crediamo in grado di fare delle scelte, e spesso non lo siamo. Ci sembra di camminare da soli da sempre.
Ma mai così.
Così soli.
Soli perché quando ci lasciano le mamme è allora che siamo veramente soli. E lo sentiamo.
Definitivamente soli.
Ed esposti. Esposti alla morte. Come non era. Come non ci appariva prima.
Lei, lei, era una mamma per noi, era la mamma di tutti. E non lo dico per dire.
Tutti lo pensiamo e lo riconosciamo e ce lo siamo detti. Il fatto è che lei si poneva così. E ci ha posto così, in un noi.
Tutti ancora ci ricordiamo, ma in modo particolare ora, che quando eravamo studenti a Bari il lunedì nei fagotti e nelle borse da Foggia, non arrivavano solo le cose di Guido e Rino, ma le cose per tutti, perché nella testa delle mamme i figli hanno sempre bisogno di mangiare. E questo preparare e pensare a tutti è stato sempre così.
Fra lei e noi. E’ stato sempre così.
Per tutti. Dovrei dire per tutti gli amici di Guido e Rino. Ma per come sono state le cose, fra noi e lei, posso anche dire per tutti e basta.
E’ anche per lei che ci riconosciamo in un certo modo, come amici di sempre, che sono sempre gli stessi anche quando sono stati diversi dopo una vita diversa.
E’ anche per il suo rivolgersi a noi in modo diretto che abbiamo finito per sentirci accomunati e riconoscibili per gli stessi caratteri e, direi, per gli stessi difetti di sempre.
E quando l’ho vista, non abbastanza spesso, ma purtroppo di questo con le mamme ce ne rendiamo conto sempre troppo tardi, quando ci vedevamo, negli ultimi tempi, si parlava anche di prezzi e di politica, perché lei era interessata alla vita, a tutta la vita, a tutti i suoi versanti, ma poi si finiva per parlare delle cose nostre e voleva sapere non solo di me, della famiglia, ma anche degli altri, di quei noi che non vedeva, ma che le interessavano, come un’estensione della sua famiglia, dei suoi figli, della sua vita.
Lo scorso autunno, noi, io e lei, accompagnammo Rino alla stazione, poi mi chiese di andare insieme a cambiare la pila per l’apparecchio acustico. Me lo chiese in modo diretto e con gentilezza, “Mo’, mi devi fare un piacere” un dovere da fare per piacere, l’espressione rappresentava bene quel che io e tutti noi eravamo per lei, dei figli che qualche volta devono fare un piacere. E io mi sentii con piacere in obbligo. E, come altre volte, mi sono trovato con lei invece che in una situazione occasionale, in un come fosse stato sempre così. E per tutto il tempo – naturalmente e come sempre - fu un chiedere, di tutti gli altri, anche dei figli e nipoti che non aveva ancora avuto la possibilità di conoscere. Le interessavano tutti. Li ricordava tutti. Tutti con la stessa sollecitudine.
Nient’altro.
Sono qui col senso di colpa di non aver avuto abbastanza tempo per lei. E che avrei voluto avere. Di aver rinviato delle visite che mi avrebbe fatto piacere fare. Che forse qualche altra sera avremmo potuto intrattenerci da lei e con lei.
Ma con le mamme, è inevitabile, si resta sempre in debito.
Sicché non resta a questo punto, per noi e per tutti, dirle un semplice, filiale, ti vogliamo bene.
Nient’altro.
Tonino per tutti
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