Editoriale
Chi dice vino dice forza
di Giancarlo Roversi
Questa volta inebriamoci con il buon vino. La nostra sarà però un’ubriacatura soltanto intellettuale, letteraria se vogliamo, attraverso quanto di bello e anche di meno esaltante è stato scritto sui benefici (e rischi) del bere.
Il vino « genera sangue purissimo, presto si muta in alimento, aiuta la digestione, purga il cervello, accresce l’intelletto, rallegra il cuore, vivifica gli spiriti, scaccia i flati [ossia le flatulenze], corrobora il calor naturale, eccita l’appetito, apre l’ostruzioni, asciuga le distillazioni, inumidisce i secchi, umetta gli aridi, a vecchi riscalda tutte le membra, purga la parte sierosa del sangue per via dell’orina, è salutare a tutta la vita, è rimedio contro veleni freddi e con esso si dissipano le molestie non altrimenti che la nebbia col vento».
A tessere questo fervido elogio del vino, vero toccasana naturale per tutti i mali, è lo scrittore bolognese Vincenzo Tanara nella sua Economia del cittadino in villa, apparso nel 1644, uno dei testi di agronomia e arte culinaria più diffusi in Italia nei secoli XVII e XVIII come testimoniano le sue quasi venti edizioni. Nelle sue pagine si trova una messe di preziose notizie sulle coltivazioni agricole, sull’allevamento degli animali domestici, sull’esercizio della caccia e sui vari modi di preparare i cibi. Ogni più minuto aspetto dell’agricoltura e della scienza alimentare viene affrontato, rivelando la non comune esperienza sul campo dell’autore, tipico esempio di erudito del sec. XVII. Alla coltivazione della vite e alla preparazione del vino il Tanaradedica due lunghi capitoli che rappresentano un po’ la sintesi e la summa delle conoscenze agronomiche ed enologiche del suo tempo e che riveste ancora un certo interesse, soprattutto per l’originalità di certe affermazioni sugli effetti taumaturgici, ma talora deleteri, del bere.
Come per tanti scrittori precedenti e contemporanei il vino per il Tanara è un nettare sacro, una specie di dono celeste fatto agli uomini per scacciare le ansie e le tristezze della quotidiana routine. Omero stesso, ricorda il nostro interlocutore, afferma che gli dei crearono vini prelibati per liberare gli uomini dalle loro più assillanti preoccupazioni: «Menelae dii fecerunt optima vina quae tristes hominum curas dispellere possent».
Non c’è da stupirsi, osserva u po’ semplicisticamente l’agronomo bolognese, perchè l’etimo stesso del vino si ricollega alla parola latina vis, ossia forza, perché una delle funzioni precipue del prezioso liquido è appunto quella di «accrescere il corpo e l’animo di forma e robustezza». Una convinzione, questa, espressa da letterati e poeti dell’antichità, i quali hanno tessuto lodi incondizionate del vino e dei sorprendenti poteri che tiene in serbo. Tra essi Plinio, il quale asseriva che il vino torna di particolare giovamento ai vecchi perché, oltre a mantenerli sani e arzilli, li rende allegri e rinvigoriti in tutti gli organi, scacciando l’astenia e la debolezza proprie della loro età.
Il Tanara ricorda il poeta greco Difilo, che sosteneva l’importanza di avere dimestichezza col bere per brillare in sapienza, docilità e buoni atteggiamenti ed essere portati più facilmente alla giocondità e al canto.
Tutti questi vantaggi, ben inteso, si manifestano se le libagioni sono contenute entro limiti ragionevoli come quelli fissati dai saggi convitati di Anteo che giudicavano ideale bere tre volte in una stessa occasione: una per mantenere la sanità del corpo, un’altra per il piacere d’amare e la terza per conciliare il sonno. Costoro però ammettevano in via eccezionale di arrivare fino a nove bevute senza trarne nocumento, purché esse fossero sempre in numero dispari: o 5 o 7 o 9.
Nonostante queste eloquenti citazioni il Tanara ammonisce a non alzare troppo il gomito, dipingendo con un quadro a fosche tinte i pericoli a cui vanno immancabilmente incontro coloro che sono affetti da smodata enofilia. Un quadro che fa da contraltare all’apologia del vino fatta in precedenza dallo stesso Tanara: il troppo vino - scrive infatti - «nuoce ancora ai nervi e al capo, genera apoplessia, paralisi, mal caduco, tremori, vertigini, difetto negli occhi, frenesia, sordità e catarro; debilita la memoria, corrompe la mente ed i costumi; distrugge le potenze animali e naturali, ingrossa la lingua e rende difficile il parlare; fa divenire l’uomo cianciatore, litigioso, lussurioso, furioso, omicidiale e bestiale senza ragione». Il soverchio bere appare insomma come la fonte di ogni male perché conduce all’ubriachezza, piaga sociale duramente censurata fin dai tempi antichi. Gli Ateniesi erano soliti esporre al pubblico ludibrio lungo le strade gli sbronzi affinché i passanti, e soprattutto i giovani, vedendo i loro gesti scurrili e indecorosi, provassero ribrezzo per un simile vizio.
Romolo, da parte sua, aveva sottoposto le donne ubriache alla stessa pena di quelle colpevoli di adulterio mentre Platone proibì l’uso del vino a coloro che venivano investiti di un pubblico ufficio.
Comunque anche contro la sbornia il Tanara ha pronto un antidoto che consente di trincare a volontà senza alcuna preoccupazione: è sufficiente aggiungere al vino un po’ di succo di cavolo crudo e il risultato immunizzante è assicurato. In alternativa a un simile intruglio, il Tanara propone un altro miracoloso rimedio: basta mangiare alcune mandorle amare prima di ogni bicchierata e il giuoco è fatto.
Segue una sfilza di suggerimenti igienici e pratici sull’uso del vino. Anzitutto per ogni pasto viene prescritta una sola qualità di vino in quanto «la misticanza di più sorti è poco salubre e nel caso si volesse variare - avverte il Tanara - si cominci dal più debole e si chiuda col più gagliardo». Con i piatti a base di carne di manzo, di maiale o di pesce viene suggerito un vino secco mentre con le carni di vitello o di pollo, oppure con i volatili, è consigliabile un vino a bassa gradazione. Durante l’inverno è preferibile bere «poco vino e gagliardo» mentre in estate è adatto un vino «picciolo, acquoso e più abbondante».
Seguendo gli ammaestramenti di Platone, il Tanara proibisce il vino ai fanciulli mentre lo raccomanda in misura sobria ai giovani e alle persone mature e in maggiore quantità agli anziani. Tutto ciò, ovviamente, con la rigorosa osservanza di alcune norme igieniche di carattere generale, poste in stretta relazione con i diversi tipi di vino; norme che vengono illustrate nei minimi dettagli, attraverso una vasta casistica ove nulla è tralasciato, nemmeno le relazioni tra il vino e l’atto sessuale. Ma affidiamoci alla viva voce dell’autore:
«Il vino gagliardo si deve bere moderatamente e inacquato; non si beva a digiuno e massime dopo il coito e dopo esercizio
violento o sudato, ma in ogni caso vi si mangi dietro alcuna cosa; dopo i frutti poco vino ma generoso, perché il molto porta presto la mala qualità de’ frutti alle vene. Non si beva mai fra un pasto e l’altro e se non si tollera la sete... si beva poco a poco, ovvero a goccia a goccia, acciocché la concozione non si fermi».
Pure sconsigliabile, secondo il Tanara, è avvicinarsi al vino dopo aver mangiato aglio o cipolla o alimenti dolci come zucchero e miele, «perché è un aggiungere calore al caldo».
Dopo queste norme imprescindibili, relative ai tempi e ai modi di bere, vengono passati in rassegna i pregi, i difetti e le proprietà medicamentose delle varie specie di vino: bianco, nero, dolce e asprigno con l’indicazione di alcuni accorgimenti per “rinfrescare il prezioso umore della terra”.
Il vino bianco, «ovvero quello color dell’oro», incontra senza riserve il favore dell’agronomo bolognese, che lo dice il più apprezzato e ricercato su tutte le mense. Per essere perfetto doveva apparire « lucido e trasparente, moderatamente grande ed odorato». Le sue peculiarità sono quelle di «resistere ai veleni alla putredine, di rallegrare i cuori, di provocare l’orina ed il sudore e confortare lo stomaco».
A sua volta il vino nero è giudicato di maggior nutrimento rispetto al bianco e tale da produrre sangue abbondante e generoso, pur celando in sé il rischio di provocare occlusioni arteriose. Ma non è tutto: «da giovani e da faticanti s’usa perché apporta loro forza e massime l’estate mentre, essendo di natura astringente, reprime il rilassamento che questa stagione suole causare a corpi e siccome questa qualità è rimedio de’ flussi, così corrobora le reni e le parti sottoposte a rotture intestinali».
Anche i due sottotipi del vino nero, ossia il rosso (color «occhio di pernice») e il «cerasolo», cioè il rosé, sono molto apprezzati perché, oltre a possedere gli stessi requisiti del nero, per il loro minor corpo, «generano assai buon sangue».
Con particolare riferimento alle sue qualità intrinseche, il vino dolce, chiamato poeticamente dal Tanara «confettura di Bacco», è lodato sia per il suo potere calorico e nutritivo sia perché «giova al petto ed al polmone, è grato di gusto come allo stomaco, oppila [cioè ostruisce, affatica] il fegato, causa la sete, empie il capo di vapori e genera pietra o renella [ossia le calcolosi o litiasi renali, vescicali e biliari] e si conviene più a’ vecchi che a’ giovani e più il verno che l’estate».
Il vino asprigno o brusco, grazie alla sua modesta gradazione, viene invece consigliato in special modo durante la stagione calda, in quanto «estingue la sete, restringe i pori, tempera il fegato infiammato, stagna il vomito e perciò si commenda per giovani e contadini».
Il Tanara ricorda anche un tipo di vino «brusco maturo o abboccato», riconoscibile per la sua « acidità gustosa e grata », il quale è raccomandato per ogni età e per ogni periodo dell’anno in virtù della sua proprietà di risvegliare l’appetito, di non obnubilare l’intelletto e di f avorire il ricambio.
Riguardo alla temperatura ideale di servizio il suggerimento resta quello della Scuola medica salernitana, secondo cui un vino può dirsi perfetto quando risulta «gagliardo, bello, profumato, freddo o meglio fresco». Il Tanara si affretta però a osservare che Galeno, dopo Ippocrate il più grande medico dell’antichità, aveva condannato il vino freddo in quanto “nocivo allo stomaco, al cervello, ai nervi, al polmone, al petto, alle budella, alla matrice [cioè all’utero], alle reni, al fegato, alla milza e ai denti”.
Molti invece erano di parere opposto, e tra essi lo stesso Tanara, convinto che il bere freddo aiuta la funzione epatica, favorisce la traspirazione, stimola l’appetito, tonifica il ritmo cardiaco e ritarda l’ubriachezza.
Per rinfrescare il vino vengono proposti espedienti in linea con le conoscenze del passato. Il primo consiste nel lasciare fiaschi, bottiglie e orci esposti per una notte all’aria sulle finestre rivolte a settentrione per poi trasferirli all’alba in cantina, ricoprendoli di paglia, lattuga, piantaggine o altre erbe. Il secondo sistema, il più comune, prevede la collocazione dei recipienti vinari a bagno in una fonte o in un pozzo, evitando quelli con acqua putrida o di cattivo odore.
Non manca un terzo accorgimento consistente nell’ammollare le bottiglie in un secchio, ricoprendole di salnitro e versandovi sopra un po’ d’acqua. Questo stratagemma lascia però piuttosto perplesso il Tanara che l’aveva sperimentato personalmente senza apprezzabili risultati.
L’ultimo espediente per rinfrescare il vino contempla l’impiego di neve proveniente dalle conserve da collocare attorno ai recipienti poco prima di portarle in tavola.
La scorribanda enologica si chiude con l’indicazione di alcuni impieghi topici e pratici del vino sia come medicamento contro le infiammazioni oculari, per la disinfezione di piaghe, contro i dolori reumatici, sia per irrorare le sementi allo scopo di una migliore protezione dai parassiti e per evitarne la germogliatura, ma anche per addomesticare gli sciami d’api, per produrre l’inchiostro e per diversi altri usi che sarebbe troppo lungo ricordare.
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