Divagazioni sulla polenta
“Mahiz” il chicco d’oro dei Maya
di Ines Roscio Pavia
Foto di Alfredo Zavanone
La prima cosa che mi viene in mente, pensando alla polenta, sono i miei anni di bimba in Brianza. La nostra casa, allora non ancora ristrutturata, aveva enormi camini. Camini dove entravi, ti sedevi sulle panche laterali, sentivi il fuoco scoppiettare e piano piano la brace ti arrossava le guance. Quando però la nonna mescolava la polenta i posti dovevano essere lasciati liberi. Era un rito: si appendeva il paiolo di rame alla catena del camino, si salava l’acqua e si attendeva che il fuoco scoppiettante la portasse a bollitura. Poi la nonna lentamente versava la farina mescolandola, in modo che non si formassero grumi. Le dosi ad occhio, poi incominciava a ”menare la polenta” per tre quarti d’ora. Al suono delle campane di mezzogiorno, la polenta era cotta, si staccava dalle pareti del paiolo dove si era formata la crosta: fumante si versava sull’asse di legno che poi veniva posto in mezzo alla tavola. La polenta si presentava corposa e soda, perché in Brianza si usa farina rustica di mais. Se vi infilavi il classico coltello di legno nel centro, restava ritto. Le pietanze variavano a seconda delle stagioni: qualche salsiccia, la mortadella di fegato, funghi, lenticchie, formaggi. In gennaio, regina della tavola era la “cassoela” a base di verze e costine di maiale. Non si buttava nulla, l’avanzo di polenta , tagliato a fette, alla sera veniva riciclato con latte o insaporito in padella con una noce di burro.
La nonna raccontava che negli anni addietro, nei momenti di disagio economico, si ricorreva alle aringhe ed alle acciughe salate, piatto poverissimo che lasciava sulle fette non tanto il pesce, che veniva diviso fra i commensali al termine del pasto, ma il gusto del sale che riempiva lo stomaco.
Ricordi a parte, ritengo proprio che la polenta, come pure il riso, possano essere posti in cima alla graduatoria degli alimenti che hanno sfamato il mondo. Infatti entrambi i prodotti vantano un alto indice di sazietà a poco prezzo. L’uomo si è sempre cibato di cereali che anticamente usava macinare fra due pietre e cuocere in acqua bollente. La polenta era allora composta da farro, miglio, sorgo e altri cereali. Così fecero i babilonesi, gli assiri, gli egiziani ed anche i romani. Fu Cristoforo Colombo, sbarcato a Hispaniola a trovare i grani d’oro del mais, alimento che gli indigeni Tainos chiamavano “mahiz”.
Gli antichi abitanti del Messico, Guatemala e Honduras, i Maya, coltivavano il mais già da tremila anni, tanto che proprio a questo cereale dedicarono il culto del dio Xiloti.
Fa però pensare il fatto che, ancora prima della scoperta dell’America, a Venezia venissero confezionati i zaleti, dolcetti rustici di farina gialla di mais.
Sappiamo anche di viaggiatori tedeschi che descrissero le fertili pianure dell’Eufrate coltivate a mais. Stranezze e mistero. Comunque già nel 1525 il mais veniva coltivato sia in Spagna che in Portogallo. Nel lontano 1550/55 si ha pure notizia di “polenta di farina gialla” derivante da coltivazioni di mais nel Veneto, nel Friuli e nel Polesine. Questo cereale all’epoca veniva chiamato “frumento a granelle grosse e gialle” Sicuramente la grande diffusione di questo prodotto, nell’intera Europa, avvenne nel diciassettesimo secolo.
Le farine per polenta si distinguono in “gialla”, la più usata che proviene dal mais (chiamato anche granoturco) che può essere macinata in grana grossa (sbramato) o in grana fine e in “bianca” (varietà “Biancoperla”) attualmente poco usata, ma giustamente difesa da Slow Food. La farina di grano saraceno, “grigiastra”, è priva di glutine (preziosa quindi per i celiaci). E’ questa la farina usata per la polenta “taragna”.
Ogni regione fa della polenta la sua specialità. Ai giorni nostri la polenta non è più considerata il piatto dei poveri: sono persino nati itinerari gastronomici per degustarla. In Lombardia la polenta “concia” si farcisce a cottura ultimata utilizzando parmigiano o gorgonzola. In Piemonte – ed è obbligo assaggiarla al Santuario di Oropa, dove fa parte della storia della gastronomia locale - si condisce aggiungendo in cottura la fontina e la toma fresca, rinvigorendo il tutto con aglio e pepe. La polenta “pasticciata” è una leccornia: si pongono le fette di polenta avanzata in una tortiera imburrata, condendole con parmigiano grattugiato e Gruyère, su cui vengono sparse cucchiaiate di sugo ai funghi o salsiccia. Il tutto in forno per una ventina di minuti.
In Friuli per celebrare il Premio Nonino, fra tante prelibatezze, non manca mai la classica polenta gialla. Nella fascinosa Treviso viene servita per tradizione anche polenta da mais bianco, ponendola nel bel mezzo di piatti di selvaggina dai sapori forti. Come contrasto alcuni ristoranti selezionati offrono una polenta più tenera con verdure, pesci di valle o prodotti lagunari. Siamo entrati in un’area di vocazione enogastronomica: la strada del Vino Rosso e le viti di Cabernet, di Merlot, di Raboso si perdono a vista d’occhio. A pochi chilometri ecco i vitigni del vino bianco Tocai. Perché non fermarsi a consumare il rito dello “spritz” (un bicchiere di vino bianco con un po’ di acqua minerale e aperol rosso) apprezzato anche dal grande scrittore Ernest Hemingway?
Nel Bergamasco, in Val Brembana e Val Seriana, viene servita con ottimi brasati, funghi, cacio di malga e formaggi di alpeggio. Piatto tradizionale del passato era “polenta e oseij” ora soppiantato dagli “uccelletti scappati” a base di fegato, “codeghi” e salsicce.
A Cavour, in provincia di Torino, proprio all’inizio dell’inverno, si celebrano i festeggiamenti di “Polenta Passione”, dove i convegni si alternano a tipiche degustazioni frammiste ad assaggi gustosissimi proposti con varietà di polente derivanti da farine sapientemente ricuperate (dal “Marano” e dal “Biancoperla”). Un pensiero va alle Langhe, alla insuperabile mescolanza dei suoi profumi e sapori e ad un piatto falsamente modesto: una piccola dorata polenta con al centro un uovo al tegamino, inondato di tartufo.
Esistono anche polentoni storici: il più sentito revoca la figura del Marchese Cristoforo del Carretto. Nel 1571 un gruppo di calderai provenienti da Dipignano, paese del Cosentino, arrivarono a Ponti. Al nobile Marchese chiesero ospitalità e cibo offrendo in cambio la loro abilità nella riparazione delle vettovaglie. Il Marchese diede loro un enorme paiolo male in arnese, promettendo di colmarlo di farina da polenta qualora fossero riusciti a ripararlo. A lavoro ultimato, ottimamente eseguito, non restò che mantenere fede alla parola data. In alcuni paesi del Monferrato e dell’Astigiano si rievoca tale manifestazione allestendo nelle piazze polente di alcuni quintali, ovviamente ben condite. Famose fra tante quella di Ponti (Acqui Terme) e quella di Monastero Bormida, dove nei vicoli del centro storico sono ricreati gli antichi mestieri. Altre polente vengono allestite a Bubbio (Asti) ed a Cassinasco (Asti).
Inaspettatamente anche nel bel mezzo del Parco Nazionale della Maiella e del Parco Nazionale d’Abruzzo la polenta fa la sua degna figura: qui diventa “rognosa” abbondantemente condita con succulenta pancetta soffritta, salsicce piccanti e pecorino.
Tutto questo parlar di polenta ha fatto nascere in molte regioni italiane le “Confraternite della Polenta” che vantano antiche e consolidate tradizioni. La più famosa fra queste è quella di Bergamo.
La polenta non deve mai essere lasciata sola: il modesto piatto diventa “una portata da re” solo se condita con fantasia e rinvigorita da un buon bicchiere di vino.
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