Un moderno codice manoscritto sulla pesca dei cannolicchi
Codex Anselmi
di Massimo Gatta
In tempi di così esasperata accellerazione tecnologica in cui tutto viene pervaso dalla vischiosità impersonale dei microcircuiti informatici che fanno aumentare, in maniera esponenziale, le asettiche distanze tra le persone, gli utenti, come ormai viene definito l'universo degli umani, fa bene al cuore e agli occhi vedere approdare sulla scrivania del bibliografo un piccolo, delicato segnale di antica civiltà amanuense, quindi ancor più umana, un breve ma esaustivo codice manoscritto, via di mezzo tra il diario e l'epistola scientifica, sulla pesca del Solen marginatus (Pennant, 1777), o Ensis siliqua (Linneo, 1758). Ma noi, gente di poca o nulla scienza, usiamo appellarlo, di volta in volta, Manego de coutelo (Liguria), Capalonga nostrana, Cape longhe de rumegada (Veneto), Capalongam Capa da deo, Manico de coltel (Venezia Giulia), Cannulicchio ferraro (Campania), Cannulicchi, Cannelicchie (Puglie), Cannello (Marche), oppure Arrasoias, Rasojas marinas, Rezorzas, Manigus de rezorzas, Gregullus (Sardegna). Questo squisito mollusco bivalve (Solenide) vive, in posizione verticale, infossato nella sabbia dei litorali e ormai da molto tempo esso viene pescato, diciamo così (più corretto sarebbe il verbo aspirato), da potenti imbarcazioni turbosoffianti, le "cannellare", dove la draga penetra per circa 20-25 centimeri nel fondo sabbioso e l'avanzamento dell'attrezzo viene facilitato da potenti getti d'acqua a pressione, così da ridurre la resistenza. Questa forma di azzeramento assoluto della manualità, della singolarità del pescatore, crea notevoli disastri all'ecosistema ma è ormai l'unica forma praticata per la pesca dei moluschi, e non solo. Stupisce e affascina maggiormente, quindi, l'incontro casuale con la semplicità amatoriale del pescatore di cannelli che ha pensato bene di donare a sè e agli altri i segreti del suo solitario agonistico lottare con questo difficilissimo e innocuo avversario, la cui pesca manuale è tra le più difficili da praticare. Una tecnica che s'impara nei tempi lunghi delle stagioni che si susseguono puntuali, che si raffina col trascorrere delle estati, che si migliora con l'esercizio e la conoscenza dei fondali, con la pratica, l'esperienza, l'attesa. Elementi questi che ritroviamo in questo breve manoscritto che mi piace definire Codex Anselmi dal nome del suo estensore: Sergio Anselmi. Ma chi era Anselmi e cos'è questo libretto che sfogliamo con un misto di curiosità e passione, immaginando l'autore seduto nel suo moderno scriptorium intento al ricordo delle estati marine, a scrivere e disegnare il suo manualetto di pesca amatoriale, organizzato e preciso, frutto di anni di apprendistato, di frequentazione e di ascolto del mare.
Ebbene Sergio Anselmi è stato un marchigiano illustre, un affermato studioso, un celebre storico dell'economia, scomparso nel 2003: «professore rigoroso e narratore curioso, osservatore attento della nostra terra e del nostro mare, collezionista instancabile delle storie degli uomini e delle donne, cittadino del mondo» (Vito D'Ambrosio); docente di Storia economica e direttore dell'Istituto di Storia economica e Sociologia dell'Università di Ancona, Anselmi in questo suo stralcio di diario ci ha consegnato una porzione della sua umanità, della modestia del grande che sa apprezzare gli aspetti, insieme minuscoli e complessi, dell'esistenza. La sua stessa attività di studioso è connotata da interessi per quella che amava chiamare la “koiné adriatica”, le strutture politiche e morfologiche della sua terra: la pesca, i porti, gli scambi commerciali, la pirateria. Inoltre fu sempre molto vicino alle categorie umili, artigianali, popolari, come quella dei pescatorinda lui organizzati nella Fratellanza degli “Amici del Molo” di Senigallia. Questo stesso diario svela aspetti del suo profondo interesse per i “non protagonisti” della storia quella con la s minuscola ma non per questo meno centrali di altri.
Sfogliando
queste brevi pagine ci si accorge di quanto valore Anselmi attribuisse al tempo, il tempo disteso dell'attesa, la pazienza scandita dal ritmo regolare della scrittura, della lettura, del pensiero, del disegno. Solo con un tale amore per la lentezza era pensabile scrivere un diario che fosse anche trattatello tecnico. Festina lente, affrettati lentamente, era il motto scelto dallo stampatore umanista Aldo Manuzio per la sua stamperia veneziana; l'impresa a cui il motto era collegato era la famosa àncora con intorno il delfino, a dire la velocità sposata alla ponderazione. Ho pensato a questa celebre impresa leggendo le sobrie paginette del Codex Anselmi, guardando i suoi precisi disegni esplicativi, riflettendo sulle considerazioni di uomo pratico e nello stesso tempo poetico: «Negli ultimi giorni di luglio e nei primi di agosto ho cercato di pescare i cannelli ("cannolicchi") nei soliti luoghi, modi e nelle solite ore di sempre. E con la stessa tecnica», questo l'incipit del 3 agosto 1980. Dalle prime considerazioni generali sulla mutevolezza dell'acqua marina Anselmi, ad un certo punto, pone un'immagine d'antan, struggente e precisa: «Ricordo perfettamente le bagnine che verso le 5-6 ore del mattino, vestite, andavano su e giù per gli scanni, a dieci-venti metri dalla battigia, si chinavano in continuazione, bagnandosi poco, per trarre dal fondo cannelli, cappole, calcinelli. Qualche volta riuscivano a prendere una sogliola che avevano involontariamente fermato col piede. E' capitato anche a me». Sembra di vederla quella spiaggia solitaria alle prime ore dell'alba, l'acqua immobile, la battigia, le donne con le gonne lunghe nell'acqua bassa, intente a guardare in basso in quell'universo acquatico incontaminato, «bagnandosi poco», come scrive l'amanuense marchigiano. Il profumo di quelle stagioni perdute per sempre risalta nella scrittura pulita di Anselmi, nei suoi disegni precisi, utili, essenziali.
Ma c'è spazio anche per la pietas, nei confronti dell'indifeso mollusco, a cui solo la pesca manuale offre una chance, l'unica di cui può disporre e che le moderne tecnologie hanno azzerato, una pietas che potrebbe estendersi all'intero genere umano. Scrive Anselmi: «A me piace questo secondo sistema (nuotando in superficie con la maschera, il boccaglio e le pinne, N.d.A.) che costringe il pescatore a misurarsi con il cannello in condizioni meno sfavorevoli per questo». La pazienza, la tecnica del pescatore, la sua capacità di scendere sott'acqua in apnèa per attendere il momento opportuno, la difficoltà, lo sforzo: elementi che Anselmi sottolinea come centrali del lungo apprendistato e che formano la sostanza stessa di questa pesca contemplativa praticata “nella luce dorata delle mattinate estive, subito dopo l’alba, quando i villeggianti ancora dormono e la spiaggia è immersa nel silenzio” (Renzo Paci).
Una tecnica minuziosa, solitaria, personale, rischiosa, ma proprio per questa umana: «Nella lotta tra la resistenza fisica del pescatore immerso in apnèa e quella del cannello sta, secondo me, quel minimo di competitività operativa che giustifica questa pesca nella quale alla velocità iniziale di fermare il mollusco deve seguire la prudenza (spesso l'attesa) del trarlo fuori dal suo lungo, diagonale cunicolo». Vedete: velocità, prudenza, attesa, termini di una tradizione umanistico-rinascimentale così bene acclimatatisi in queste pagine, che avrebbero forse suscitato l'interesse di Italo Calvino, il Calvino delle estreme Lezioni americane ma anche di Palomar.
Anni dopo, in un appunto dell'8 agosto 1993, Anselmi nota una curiosa correlazione tra cannolicchi e treni, frutto anch'essa dell'antica saggezza dei vecchi pescatori: «Pare che i cannelli salgano all'altezza del fondo sabbioso soprattutto quando passano i treni, specialmente se veloci. Ciò perchè sentono le vibrazioni del suolo. Lo dicono i figli e le figlie dei vecchi pescatori e delle vecchie pescatrici, che li prendevano con le mani e con i piedi nelle prime ore del mattino (spiagge deserte), spargendo gocce d'olio sulla superficie marina. Oggi li si pesca con le
mani col ferro (asta con punta conica), usando prevalentemente maschera, boccaglio e pinne». E' difficile sottrarsi all'afflato poetico di quelle immagini: i ricordi dei figli e le figlie di vecchi pescatori e pescatrici, il correre dei treni sui vicini binari, l'affiorare in superficie dei cannolicchi perchè impauriti dalle vibrazioni del suolo, la convivenza tranquilla tra specie diverse, il rispetto di antichissimi codici comportamentali, il profumo della tradizione.
L'ultimo appunto del Codex, del 13 agosto 1993, ci riporta all'impresa tipografica di Manuzio, al suo delfino araldico, simbolo di velocità, costanza e perfezione: «Ieri, rientrando da una passeggiata in barca, a circa mezzo miglio dalla spiaggia di Cesanella, ho incrociato due bei delfini che giocosamente volteggiavano, probabilmente mangiando pesce azzurro. Li ho seguiti con lo sguardo per un quarto d'ora, forse 20 minuti, tenendomi a 150-200 metri di distanza. Non vedevo dal tempo di guerra i delfini così prossimi alla battigia. Ma durante il conflitto, spesso entravano nel canale e nelle darsene: così più di un anziano mi ha detto».
E dopo questi ricordi concludiamo con una bella ricetta, degno omaggio a questo poetico diario di un tempo scomparso. Cannolicchi dorati (per 4 persone). In un tegame, tostate per alcuni minuti olio, pangrattato, prezzemolo, aglio, sale e pepe. Fate aprire in un altro tegame, a fuoco vivo, 40 cannolicchi, in seguito privateli delle valve, mettendole da parte; poi riempitele con i molluschi ed il composto preparato in precedenza. Ponete infine il tutto in forno già caldo, a 200° per 15 minuti.
Per coloro interessati al libretto di Sergio Anselmi fornisco gli estremi bibliografici:
SERGIO ANSELMI, Sulla pesca dei cannelli, introduzione di Renzo Paci, Regione Marche, Rivista "Proposte e ricerche", 2004.
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