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Il pesce dei laghi lombardi: dalla pesca al consumo
A pan e pesét.
di Massimo Pirovano *

*Direttore del Museo Etnografico dell'Alta Brianza

Per gentile concessione della rivista "SM Annali di San Michele" e dell'Autore, MenSA ha finalmente l'onore di presentare ai suoi lettori un nome "nuovo" (per MenSA magazine, beninteso), quello del bravissimo Massimo Pirovano, che mostra anche in questo pezzo la sua ricca e varia cultura di storico, etnografo, storico-alimentarista e molto altro. Grazie e buona lettura.


Seminario Permanente di Etnografia Alpina - 9
"Pane e non solo. Prospettive storico-etnografiche sulle culture alimentari dell'arco alpino"
Trento - San Michele all'Adige, 25-28 novembre 2004
Ora pubblicato in "SM Annali di San Michele", 19, 2006

E' stato scritto che il cibo è cultura quando si produce, e che lo è già quando ciò che mangiamo deriva da un'attività di predazione, dato che queste capacità dipendono dalle conoscenze che abbiamo della natura e - in particolare nel caso che ci interessa qui - del comportamento degli animali, degli strumenti adatti alla loro cattura, delle nostre capacità di costruirli e di usarli.
Laghetti di Olginate e Garlate
Laghetti di Olginate e Garlate
Il cibo è cultura anche quando si prepara perché la trasformazione dei beni naturali è soggetta alle regole ed alle tecniche derivate dalla tradizione e dai condizionamenti sociali.
Il cibo è cultura quando si consuma perché, in quel momento, noi esprimiamo delle scelte che rimandano a gusti e a stili di comportamento acquisiti o maturati dal gruppo umano a cui apparteniamo, sia per i valori nutrizionali sia per i valori simbolici che attribuiamo ad un certo alimento e ad un certo piatto, spesso utilizzando ciò che mangiamo anche per affermare un'identità culturale che comunichiamo agli altri (Montanari 2004).
Tutto ciò spiega i molteplici motivi di interesse degli antropologi culturali per l'alimentazione.
Questo intervento, peraltro, presenterà solo alcune considerazioni di etnografia e di storia della preparazione e del consumo di alcuni pesci di lago nella zona prealpina della Lombardia, accennando anche ai contesti sociali e ai vincoli giuridici che hanno influito sul momento della produzione, ovvero sulla pesca in diverse epoche.
Nonostante la Lombardia sia estremamente ricca di acque, di fiumi e di laghi, che da tempi remotissimi hanno favorito l'insediamento umano e che costituiscono una risorsa essenziale per la vita e per l'economia della regione , la possibilità di pescare è stata raramente libera per tutti, specialmente in età moderna e contemporanea.
Anticamente, il diritto romano prevedeva l'uso pubblico delle acque, anche se si applicavano molte deroghe a questo principio di ordine generale. Secondo diversi autori l'epoca delle invasioni barbariche, il periodo carolingio e quello longobardo confermarono questo orientamento generale (Mira 1937: 1 sgg.). A partire dalla tarda dominazione longobarda in Italia, possediamo però diversi documenti da cui risultano titolari di regalie e beneficiarie dei diritti sulle "piscarie", o del diritto di esigere un compenso per l'esercizio della pesca, delle istituzioni religiose .
Va detto che si era affermato in quei secoli un modello economico e di cultura alimentare di origini barbariche che ridava grande importanza alle attività silvo-pastorali, alla caccia e alla pesca, cui si accompagnava una riduzione del ruolo preponderante dell'economia agricola, caratteristico del mondo romano. In effetti, il paesaggio del primo medioevo aveva visto prevalere i boschi, le paludi, i pascoli, a discapito dei campi coltivati. Il pesce era assai abbondante dappertutto, era una risorsa alimentare importante, e godeva di una stima speciale anche sul piano simbolico, in relazione agli episodi evangelici in cui pesci e pescatori erano protagonisti ed al fatto che Cristo stesso fosse rappresentato come un pescatore o con la figura del pesce.
Sul piano dei precetti alimentari, che guidavano la vita del buon cristiano, e dei religiosi in primo luogo, il pesce aveva un ruolo centrale. Fin dalla regola di san Benedetto,infatti, il monaco fa voto di non cibarsi della carne (dei quadrupedi, in particolare), mentre è considerato lecito il consumo del pesce. Inoltre, nel medioevo, tutti i cristiani erano tenuti a rispettare l'astinenza dalla carne per 120-130 giorni l'anno (per qualcuno addirittura per 160 giorni), cioè in media per un giorno su tre. "Vi erano infatti compresi tutto il periodo dell'avvento e della quaresima; i giorni che precedevano le principali feste liturgiche; il venerdì e i sabato di ogni settimana (Montanari 1979: 279).
Non è detto che la norma venisse rispettata rigorosamente dai laici; ma non pare si possa mettere in discussione l'importanza che il pesce doveva avere nell'alimentazione del medioevo.
Nonostante che l'imperatore Federico I, con la pace di Costanza (1183), avesse rinunciato a favore delle città della Lega Lombarda a tutte le regalie, la feudalità non scomparve e i diritti su edifici di pesca, tratti di fiume o di lago, rimasero in molti casi appannaggio di monasteri, mense vescovili e parrocchie . Ancora nel 1627 tra i padroni dei legnari e delle gueglie di Pescarenico - strutture fisse particolarmente redditizie per la pesca -, oltre ad alcuni privati (Monti, Ghislanzoni, Polvara, Riva; un Bottafogo che ne aveva uno con un Ghislanzoni e un Togno Teoldo che ne aveva due) figuravano le monache di Santa Maria Maddalena di Castello, a Lecco.
Però in epoca comunale la rivendicazione dei diritti di pesca - come del resto dei diritti di transito sulle acque - da parte dei comuni è più frequente.
In alcuni casi si tratta di diritti che spettano alle città più importanti, in altri casi ne godono le comunità rivierasche.
Le meraviglie di Milano di Bonvesin della Riva, vissuto tra il XIII e il XIV secolo, parla dei "pesci di ogni genere che ci forniscono i seguenti laghi e fiumi del contado: il lago Maggiore coi molti fiumi che ne derivano, i laghi di Biandronno, di Bobbiate, di Galliate, di Sartirana, di Carezzate, di Lugano, di Cannobbio, di Monte Orfano, di Alserio, di Pusiano, di Mairaga, il lago di Annone e quello di Santa Brigida, da ciascuno dei quali esce un fiume. Inoltre i laghi di Segrino, di Mandello, di Lecco . Monsignor Giovanni Dozio (1798-1863), viceprefetto della Biblioteca Ambrosiana, poi, ci fornisce un prospetto ricavato da un manoscritto cinquecentesco, delle quantità di pesce che ogni settimana, durante la quaresima, i paesi lacuali erano tenuti a mandare a Milano. Brivio vi figurava con 100 libbre: una cifra significativa, superata dalle 300 che erano dovute dai centri lariani di Bellano, Mandello e Lecco. Tra i paesi situati su laghi minori, solo Civate (che abbiamo già incontrato come sede dell'abbazia di San Pietro), sul lago di Annone, superava con 150 libbre la quota di rifornimenti che toccava in egual misura a Brivio, a Olginate e ad Annone (Dozio: 50-51)
Cesare Cantù Cesare Cantù (1804-95), storico, direttore dell'Archivio di Stato di Milano e cugino del Dozio, conosceva bene Brivio, suo paese di origine sulla riva occidentale dell'Adda, a sud del lago di Como. Riprendendo varie osservazioni che il fratello Ignazio aveva esposto ne Le vicende della Brianza del 1836, scriveva a proposito dell'evoluzione dei diritti:
"La pesca da Brivio sin a Cavenago era diritto dell'arcivescovo; diritto nulla più che scritto come tant'altri, perocchè i Briviesi da antico la esercitavano nel loro lago e ne furono riconosciuti nelle paci di Cremona 1441 e di Lodi 1454." In quel tempo sul lago da Lavello ad Arlate vantava delle pretese la potente famiglia dei Vimercati, ma fu fisco spagnolo, dopo una lunga contesa giudiziaria avviata nel 1606, ad avere la meglio vent'anni dopo. La comunità di Brivio, a questo punto, si arrese ad acquistare il lago dalla Regia Camera. "Tanto però era costata la lite, che il Comune dovette rivender il lago alla contessa Corio Visconti per 48.000 lire". (Cantù 1858: 959 sgg.)
Una vicenda analoga interessò le comunità di Pescarenico e di Malgrate, che a partire dallo stesso stesso 1606, furono protagoniste di una interminabile serie di battaglie legali, concluse solo nel 1685 con il pagamento alla Regia Camera, rispettivamente, di 2.000 e di 300 lire - somme con cui le due Comunità ottennero "ampia facoltà di poter pescare, far pescare e proibire ad altri il pescare e tenere gueglie e legnari nelle acque annesse ai loro territori. (De Battista 2002: 206-208). E' importante notare che per Pescarenico firmarono l'atto di conciliazione le "Autorità" e i "Particolari" definiti anche "Originari", ovvero gli esponenti delle quattro famiglie - Ghislanzoni, Riva, Monti e Polvara - che fino ad oggi conservano il diritto di pesca sul lago di Pescarenico . Da queste famiglie provengono tutti i pescatori di professione degli ultimi secoli e alcuni dei commercianti che, almeno dalla fine del Settecento, si specializzarono nella vendita del pesce su scala industriale.
Del commercio "considerabile" del pesce "che ha luogo a Pescarenico" parla anche nel 1806 il viceprefetto Tamassia nel suo "quadro economico" del cantone di Lecco, per dire che tale attività per il suo approvvigionamento sconfinava dalla produzione locale per rivolgersi "nelle altre parti del lago (...) da dove è portato ai paesi circonvicini, ai Mercati di Milano, Bergamo, Brescia ec. Le diverse e migliori qualità del pesce sono le trote, i lucci, gli agoni, le anguille, le tinche ed i pesci persici." (Tamassia 1806: 207) . Ritroveremo queste specie pregiate nelle testimonianze contemporanee. Per inciso il pregio dell'anguilla dipendeva dalla sua resistenza e dalla conseguente maggiore facilità di conservazione.
Ancora nel 1855 l'Apostolo, scriveva:
"Risiedono in Pescarenico quei commercianti che hanno esteso il commercio del pesce fresco ad altri laghi e fiumi, ed anche ai porti dell'Adriatico, cosicché questo piccolo villaggio è in realtà il primo mercato lombardo di prodotti fluviali, lacuali e marittimi" (Apostolo 1955: 56) - un posto di preminenza, che la ditta nata nel 1948 conserverà fino ad anni recentissimi.
Sui diritti di pesca, in generale, mi pare si possa dire che specie dal Settecento alle istituzioni religiose subentrano nobili o borghese interessati, almeno laddove non erano state le comunità dei pescatori ad ottenerlo. Il fascismo, poi, trasformerà i padroni dei laghi - almeno di quelli minori (es. Annone, Pusiano ecc,.) negli "usuari", con gli stessi diritti esclusivi di prima, non solo di pesca, ma anche di navigazione, di taglio delle canne e del ghiaccio (risorse allora interessanti quanto il pesce).
Eppure, interviste che ho condotto negli ultimi anni sui cibi quotidiani e sul cibi festivi nelle zone della montagna prealpina e nella collina lecchese ci consegnano risultati abbastanza sorprendenti se si pensa che tra le province di Como e di Lecco si trovano i laghi di Como, di Annone, di Pusiano, di Alserio, di Montorfano, di Sartirana oltre ai bacini formati dall'Adda a valle del Lario: i cosiddetti laghi di Garlate, di Olginate e di Brivio.

A titolo di esempio porterò la testimonianza di Giuseppe Devizzi - boscaiolo e muratore nato nel 1928 a Cremeno - una località posta a 792 mt. sul l/m che dista circa 16 chilometri da Lecco (214 m s l m). Riferendosi all'alimentazione degli anni dell'infanzia e della giovinezza egli afferma che "in montagna c'era l'usanza che si andava alla bottega a comperare il tonno: allora non c'era nelle scatolette, era nei mastelli, e ne facevano un etto, mezz'etto, dentro degli involucri di carta, sott'olio, in generale di venerdì. Però ogni tanto, alla sera, si andava lì a questo negozio a comperare i saràch [le salacche, cioè le aringhe salate] - c'erano anche gli agoni ma quelli costavano troppo cari. (…)I saràch eran molto salati, perché bisognava mangiare tanta polenta… si facevano abbrustolire sulla brace, con le fette di polenta fredda, che si faceva abbrustolire anche quella. Dopo si metteva su olio e aceto - poco aceto e più tanto olio, no?... - per fare un pò di pùcia è? Perché la pùcia [l'intingolo] serviva per mangiare la polenta! [Sorride]

Lecco Pescarenico


E poi ogni tanto passava un ambulante che veniva su da Lecco con un barroccio e dietro aveva su queste ceste con i pesci, in mezzo al ghiaccio, e gridava sempre "Piso vivo! Piso vivo!" e allora la gente andava lì e comperava il pesce… ma le qualità non so.
Però noi, generalmente quando si veniva a Lecco, immancabilmente si andava lì dal polentàt, nella zona della chiesa di Santa Marta. Lì c'era una scaletta che si andava su e si mangiava polenta e alborelle. Eran buone allora, è? Perché di alborelle prendevano quelle grosselle (fritte).
Le trote nei nostri fiumi c'erano, ma allora i pescatori erano rari. C'era qualcuno del paese che andava a pescare queste trote, ma generalmente nelle case normali come la nostra di trote…
E poi c'erano questi bracconieri che facevano asciugare un pezzo di torrente e poi le prendevano con le mani: ce n'erano di quelli…
Generalmente questi pescatori le consumavano loro e poi, in quel periodo lì anteguerra era cominciata già il turismo, no?, allora specialmente nei mesi estivi, la villeggiatura iniziava a metà giugno e finiva a metà settembre e allora erano tutti lì nel centro storico: perché si affittavano le camere e noi andavamo a dormire o sulla casina o sul solaio, per affittare la stanza; perché allora si mettevan dentro nelle stanze… magari in una stanza dentro dieci o quindici persone. Mettevano giù i materassi, le bisacche con dentro le foglie (le fogliette bianche di granoturco o anche di faggio) perché i materassi erano rari."

Ho riportato un brano piuttosto lungo di questa testimonianza perché ci propone una serie di temi di interesse generale sul pesce nell'alimentazione popolare, nei paesi di montagna e di collina, almeno nel corso del '900. Contadini ed operai consumavano poco pesce e lo facevano quasi esclusivamente di venerdì e in quaresima . Era decisamente più frequentemente mangiare il pesce di mare: tonno, aringhe e merluzzo. Il commercio del pesce dei laghi vicini dipendeva dal passaggio di qualche ambulante, ed era condizionato dalle distanze dai luoghi di prelievo e dalla deperibilità del prodotto. Il pesce di lago, quindi, aveva per la gran parte della popolazione dei paesi non rivieraschi un'importanza del tutto secondaria, tanto che neppure le donne ricordano spontaneamente un pesce di lago che si cucinava in casa o una ricetta di quegli anni . Il consumo e la stessa preparazione del cibo erano, inoltre, sempre segnate dalla presenza - per così dire - ingombrante della polenta, che rimaneva l'alimento dominante, anche le rare volte che si abbinava con le aringhe salate ed essiccate, rinvenute sulla brace, o con il baccalà fritto in pastella. Del resto come dice un proverbio lombardo La pulénta la cunténta [sazia]. Il pesce più pregiato e costoso - sebbene prodotto localmente - era destinato ai ceti benestanti: il testimone lo dice esplicitamente per gli agoni, riferendosi ai cosiddetti missoltino.
Prima di parlare di questa 'specialità' del lago di Como, è interessante ricordare - con Fernand Braudel - che la diffusione dell'aringa salata, dal Baltico e dal mare del Nord verso l'Europa occidentale e meridionale, risale all'XI secolo, quando si perfezionano i metodi di conservazione attraverso l'uso di sottoporre il pesce a salagione, o di essiccarlo, o di affumicarlo, o di metterlo sott'olio. L'aringa, che fece la fortuna delle città anseatiche, si trasportava per via di mare, lungo i fiumi, con carri o con bestie da soma, e arrivava fino a Venezia. Lo storico francese ci dice poi che alla fine del Quattrocento, il nuovo grande protagonista del mercato ittico diventa il merluzzo, con la scoperta dei ricchissimi banchi di Terranova e la conseguente lotta per il loro sfruttamento da parte di baschi, francesi, olandesi, inglesi, che essiccavano il pesce a bordo o a terra (Braudel 1977: 152-155). Seccati all'aria o anche salati, lo stoccafisso e il baccalà, costituiranno "una presenza assidua sulla mensa dei ceti popolari, soprattutto delle città" - come ho già accennato - fino ad anni recenti (Montanari 1994: 102-103).
I missoltini, invece, erano un prodotto più ricercato e costoso, anche perché fino a pochissimo tempo fa venivano gli agoni pescati solo con le reti . Alessandro Sala, pescatore di mestiere di Bellagio, spiega che nella seconda metà di giugno, al termine dell'epoca riproduttiva, è consentita la pesca degli ultimi agoni che all'alba e al tramonto si avvicinano alla riva e vi restano per cinque, sei ore. Si pensa che i pesci catturati in questo periodo siano i migliori per l'essiccazione, perché più magri, mentre i più gustosi da cucinare freschi siano quelli pescati in primavera o a settembre. Nell'800 erano "lodatissimi" gli antesìt, agoni non più grossi di un alborella, sia cucinati sia essiccati e salati.
Antonio Curti - professionista in pensione di Colonno, sul lago di Como - ribadisce la distinzione tra l'agone che si catturava a settembre, quando avevano deposto le uova, che si chiama l'agone di grasa - perché prima gh'è l'agùn de magra che l'è quello de mac', che per fare 'l misultìno quello lì è il più buono. Allora si riconosceva questa differenza, ai tempi: per questo c'era una differenza di prezzo, e anche di gusto, fortissima: adès capìsan pü nagót, adès tüt va bée. Una volta rendeva bene preparare i missoltini, ma adesso sono lavorati industrialmente, che alla nostra maniera non si può più farlo" anche perché i consumatori sono diventati indifferenti alla qualità del prodotto.
Giovanni Cetti, studioso ottocentesco della pesca lariana, scrive che questi agoni erano salati, essiccati e posti in mastelli di legno - oggi sostituiti da scatole di latta. Il procedimento è peraltro sostanzialmente immutato: il pescatore toglie le interiora, i curadüür, ai pesci che vengono messi in un recipiente con del sale, per essere lasciati in salamoia circa ventiquattro ore. La tecnica tradizionale prevedeva, a questo punto, che i pesci fossero infilati su un filo di canapa, la sfilza, tenuta in tensione da una bacchetta di legno, el sbadàc (letteralmente "lo sbadiglio", perché forma una sorta di bocca aperta). Questi arnesi venivano esposti al sole e soprattutto all'aria, per un tempo variabile da due a quattro giorni, secondo il clima e le dimensioni del pesce. Oggi al posto dello sbadàc si usano dei cavalletti di legno da cui sporgono dei chiodi in materiale inossidabile. Questa tecnica consente di preparare insieme anche pesci di peso e dimensioni limitatamente differenti, dato che è possibile togliere al momento giusto un agone per volta senza sfilarli per forza tutti, come avveniva un tempo. Il pescatore, una volta essiccati, schiaccia la testa ai pesci e li stipa nel contenitore, l'uno a fianco dell'altro. Inserisce delle foglie di alloro tra uno strato e l'altro, curando che non rimangano nella scatola spazi dove, con il vuoto, possa depositarsi stabilmente l'òli cioè il grasso rilasciato dai pesci. Posto il coperchio sugli agoni nella scatola, si pressano con un piccolo torchio. Dopo la prima pressatura, nei giorni successivi si aggiunge qualche strato di agoni in modo che riempiano quasi del tutto la latta, lasciando solo in superficie un sottile strato di grasso perso dal pesce. Il missoltino sarà pronto almeno quattro mesi dopo, quando sotto il suo manto bianco-argenteo la carne sarà diventata "matura", cioè rossa.
Una stima della metà del secolo scorso parla di una produzione di missoltini di 50.000 chili in un anno sul Lario, destinati soprattutto ai mesi invernali e specialmente al periodo quaresimale.
I pescatori di mestiere dicono che, secondo i vecchi, per fare un buon missoltino ci vogliono le tre esse - sale, sole e sassi - alludendo all'iniziale di queste parole, che alludono a tre momenti della lavorazione. I sassi erano necessari a far lavorare la leva francese, che si usava prima del torchio applicato al contenitore dei pesci.


Milano città acquatica, da un'antica mappa


Il nome di questo prodotto può essere derivato dal termine misôlta, che, secondo il Vocabolario dei dialetti della città e diocesi di Como (Monti 1845), prima ancora che indicare una gran "quantità", "abbondanza", avrebbe il suo significato primitivo proprio come "quantità di agoni insalati e stivati in mastello". Il dizionario del Cherubini, più vecchio di qualche anno, riporta per missòlta il significato generico di "partita", "nuvolo", "subisso" per intendere un gran numero, e aggiunge alla voce missoltìn le seguenti definizioni, non prive di incertezza: "agone misaltato? L'agoncino conservato in puro sale" (Cherubini 1839).
Ma sull'origine di questa tecnica per conservare il pesce esistono anche delle leggende: una ci è stata riferita da Antonio Curti. In tempi molto lontani a Spurano c'erano tanti pescatori, tutti con le reti a strascico, coi famosi linàa che ciapàvan tanti agùn. Vicino al lago c'era un palazzo di una signora svedese o norvegese, si chiamava Oltini [più plausibilmente Olten o Oltin]. Questa signora, che vedeva sempre prendere questi pesci in un'epoca in cui non c'erano frìgur e minga frìgur, vedeva che in parte li vendevano ma gli altri li buttavano. "Ma perché fate così? - ormai era tanti anni che era lì - e non cercate di far qualcosa?" "E cuse fèm?" "Fate come su al nord: salateli; li salate, li sviscerate e poi li mettete a seccare…" E così lo hanno fatto, ed erano buoni. "Vacca galera! Adès chichinscé cum'i ciàmum?" "La dì la miss Oltini, no?" perché la ciamàvan 'miss', al pòst de ciamàla 'signora', e da lì è nato il missoltino." Il pescatore conclude dicendo di avere sentito la leggenda da uno studioso dell'argomento. E' però sorprendente che anche la storia di questa origine leggendaria ci riporti sulle rive del mare del Nord e del Baltico,dove è nata la conservazione delle popolarissime aringhe.
Esiste, poi, un'altra spiegazione riferita da Piero Taroni, pescatore di Carate Urio e commerciante di frutta, secondo cui il nome del missoltino deriverebbe dalla tecnica usata per la conservazione: "viene da 'messo nel tino', nel barattolo di legno che si usava prima delle scatole di metallo. Il pescatore aggiunge che il nostro agone è molto migliore di quello del Garda, più acquoso e che, una volta, l'olio rilasciato dal missoltini veniva usato nelle case dei nostri pescatori per le lucerne.
A proposito dei sistemi di conservazione del pesce, Antonio Curti aggiunge che ci volevano circa 18 agoni verdi - cioè freschi- per fare un chilo di pesce che, con il calo dovuto all'essiccazione ed alla torchiatura, il peso si riduceva a circa un terzo del prodotto originario. Questo spiega il costo elevato del prodotto finito e la sua destinazione prevalentemente élitaria, almeno al di fuori dei paesi lariani (Pirovano 2003).
Per tornare agli spunti offerti dalla prima testimonianza raccolta in montagna, vi si dice delle trote di fiume destinate ai turisti e, dunque, alla vendita
In generale i salmonidi, ed in particolare la trota di lago, erano considerati dai pescatori di mestiere il pesce più pregiato, che si doveva vendere. Nel suo libro dedicato al Benaco, Foreste Malfer scrive: "Per eccezionale saporosità delle carni, per la ponderosità de' muscoli e per il senso di selvaggia superiorità che la domina in ogni atto, la trota è degna dell'eminente posto che occupa nel concetto di tutti e può essere proclamata la regina del lago." (Malfer 1927: 85) Ma sul Garda godeva di una stima analoga il carpione, che compariva ben di rado sulla mensa dei pescatori. Il proverbio benacense, citato da Vedovelli, Chi vive di carpioni/ more nelle prigioni si potrebbe spiegare con la convinzione che se questi pesci non venivano venduti, ma mangiati, si finiva in miseria e con i debiti. (Vedovelli e Bassi, 1991: 28).
A proposito della trota e delle diverse destinazione dei pesci di diversa specie, Mario Cattaneo, nato nel 1914 a Calolziocorte, operaio metallurgico e in ferrovia, cresciuto in una famiglia di contadini-pescatori, erede di un diritto di pesca sul lago di Brivio, ricorda che se si catturavano cavezzài, salén e péch [i cavedani, le salene, i pighi, che i pescatori definiscono pès biàanch, pesce bianco]:

"si andava a venderli con la gerla ai contadini della Valle San Martino o della Val Cava, coprendo il pesce con le foglie delle ninfee per mantenerlo fresco ; ma se si prendeva una quài tröta di sèt o vòt chili [qualche trota] le portavamo su al monastero di San Genesio, ai frati, perché là i me pagava… Loro facevano di magro il venerdì. Qui facevano tutti di magro in quaresima: o scardòl, o àrbole o saléne, dumà spìne [scardole, alborelle e salene, piene di lische] - eppure, se ne prendevamo un quintale andavano tutte. Allora avevano fame e mangiavano.
Per vivaio si usava un cassone forato, di castagno, con lo sportello, che non marciva, ma se questa cassa non bastava, perché avevamo preso troppo pesce, usavamo delle botti forate e la ancoravamo al fondo, perché allora c'erano i bracconieri: mé ghé disìa 'l bröc'. Qui dentro non mettevamo bottatrici, anguille e pesci persici e neanche i lucci - tutti pesci predatori che si sarebbero aggrediti -: li tenevamo da parte, e per quello lì veniva un commerciante di Pontida col cavallo, che faceva il rivenditore - i ghe disìa 'l Zanìi… ma voleva anche i bàarp e alùra gh'éra anca i lavarèi lé… e i agùn riàva só [fino alla costruzione della diga].
A casa il pesce noi lo mangiavamo due volte la settimana: al venardì me faha fa de màgher, mangiàhe scàrdule sèche e àrbule. Si facevano seccare al sole e poi si mettevano in una bella cesta grande sul solaio e ci mandavano su a prendere una branca de àrbole e dó scàrdole per il giorno dopo, che era di magro. Sul solaio c'era aria… oppure le mettevamo nella camera della nonna, di sopra.luccio
Le conservavamo per quando non se ne prendeva d'inverno e le facevamo abbrustolire su una graticola, sul fuoco del camino. Altrimenti preferivamo mangiare il barbo in umido o il luccio in bianco… ma dopo stufava, questo pesce!
Le alborelle le seccavamo quando ne prendevamo tante nel periodo della frega [durante il periodo della riproduzione]: le stendevamo al sole per una ventina di giorni, sulle tavole fatte di cannette - belle pulite - che si usavano anche per allevare i bachi da seta. La sera le ritiravamo e il giorno dopo le portavamo fuori ancora ad asciugare, e le voltavamo."

Come abbiamo detto questa è la situazione relativamente privilegiata di una famiglia di contadini che aveva anche un diritto di pesca. Ma torniamo a un pescatore a tempo pieno, del Lario.
Antonio Curti dopo avere parlato degli agoni, dice "mettevamo giù anche le alborelle: in un primo tempo senza pulirle - con sale e basta - poi venivano stese all'aria e poi le mettevamo giù stese nelle damigiane." Al tempo propizio, c'era a Moltrasio la féra del pès del san Martìn e si portavano giù per venderle - quelle damigiane lì - l'arbul séca."
Le alborelle essiccate e salate facevano parte anche della dieta dei pescatori del Garda e del lago di Lugano: nel primo caso si parla di àole salè (Vedovelli - Basso 1991: 28) e nel secondo di pesìt sech (Ortelli Taroni 1989: 126), ma erano preparate in maniera analoga al lago di Como.

Più avanti - aggiunge Antonio Curti - sono arrivato a fare questo lavoro con le alborelle più grosse - pescavo con la maglia del 14 - arbolone grosse: gli tagliavo via la testa e intanto venivano fuori le viscere, le mettevo giù nelle latte: "erano un spettacolo!" Dopo ci vuol professionalità nel mestiere: è come i filetti… Ho messo giù i filetti di bondella, che non andavano, non si vendevano, ma "quando si fa un mestiere bisogna non sciupare niente" (Pirovano 2003).

Ad esempio le interiora degli agoni, i curadüür , cui abbiamo accennato a proposito della lavorazione dei missoltini. Fino agli anni '60 del secolo scorso non si buttavano. C'era delle donne che chiedevano ai pescatori di tenerle per loro: facevano rosolare la cipolla e poi con l'aceto e la farina infarinavano sti curaduri, i bütàven déent e i magnàvum: a me non sono mai piaciute a dire la verità ma li mangiavano, affamati com'erano.
Interessante la nota di Cetti che, in proposito, scriveva: "Anche colle curadure, ossia interiora, si fa un ghiotto manicaretto, appetito sovrattutto dai bevitori. I missoltini, ossia gli agoni salati e dissecati al sole, servono di companatico principalmente ai nostri littorani nelle vigilie quaresimali. Si cuociono sulle bragie e si mangiano con qualche salsa piccante. In certe circostanze potrebbero tener le veci delle acciughe (vulg. incioda). "
I fratelli Fraquelli, pescatori di Ossuccio sul lago di Como, ricordano che la madre preparava la turta de curadüür - usanza confermata dal Monti (1846: 26) scrive: "Colle interiora degli agoni dette curadure o frittura, si fa una torta cui si mescola pane grattugiato, cipolle e spezierie. Cuocesi al butirro in padella." A non molti chilometri di distanza questo vecchio piatto di interiora di agoni è attestato sul lago di Lugano (Ortelli Taroni 1989: 128).
Al di là di quello che possa suscitare al nostro gusto un piatto simile, credo che ancora una volta si debba essere d'accordo con Massimo Montanari quando afferma che mentre il pesce conservato richiamava nozioni di povertà economica e di subalternità sociale, quello fresco richiamava immagini di ricchezza, oppure di una distinzione professionale - quello dei pescatori che potevano usare, magari a costo di indebitasi, le barche e le reti. In questo ambiente sociale era però chiara e netta la differenza tra il pesce che doveva servire al consumo familiare e quello destinato obbligatoriamente alla vendita.
Per il contadino, per l'operaio e in parte anche per lo stesso pescatore il pesce rimaneva un cibo "quaresimale", anche perché il pesce non riempie e non sazia. Per questo - io credo - nelle nostre famiglie dialettofone, quando un genitore voleva far capire ad un figlio che era imminente il momento del castigo, gli diceva minaccioso: Te mèti mé a pan e pesét! (un pane, ovviamente, non bianco).




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