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Il Sogno culinario di Gino Doria e altre storielle gastronomiche
di Massimo Gatta

Uno dei più perfetti, ma poco conosciuti, conte bibliogastronomici del Novecento, e non solo italiano, è sicuramente il Sogno di un bibliofilo, il breve racconto pubblicato da Gino Doria (1888-1975) nel 1944 in una Napoli in pieno conflitto mondiale ma che, seppure lentamente, vedeva allontanarsi l'esiziale presenza nazifascista. Per apprezzarne appieno la grazia, l'ironia e una certa sottile perfidia, bisognerebbe ricordare le drammatiche condizioni di sussistenza a Napoli in quegli anni. I napoletani, infatti, sembra si nutrissero quasi esclusivamente di noccioline americane, patate lesse senza sale e purea di piselli, alimenti (?) introdotti in città dagli americani. Solo così si potranno godere appieno le descrizioni che Doria fa sia del pantagruelico pranzo offerto in onore suo e dell'amico editore Riccardo Ricciardi dalla baronessa Elodia Pandarese de' duchi di Fiumecàlido, sia della sontuosa biblioteca appartenente alla stessa e che i due amici visiteranno dopo pranzo. Ma il racconto è anche un inno alla libertà riconquistata, un inno di speranza, il desiderio di rinascere a nuova vita dopo i tormenti della guerra, e quale migliore occasione che inventarsi un grande sogno dove evocare ogni ben di dio, materiale e intellettuale, in fondo la cucina e la letteratura sono linguaggi universali. Ha giustamente rilevato Giovanni Pugliese Carratelli a proposito di questo racconto: "La fine della guerra sembrava ormai prossima e rinascevano le speranze di un rapido ritorno d un vivere autenticamente civile e all'operosità di un tempo: nell'inverosimile castello, nel convito irreale, nella prodigiosa biblioteca si configura la promessa di domestiche sedi non più minacciate di distruzione o di invasione, e di mense soddisfacenti (e qui l'autore, raffinato buongustaio, non ha potuto trattenersi dall'apporre una nota, unica ed eloquente), e soprattutto la prospettiva di libere ricerche e comunicazioni anche oltre i confini, senza polizieschi controlli, e del piacevole esercizio dell'euristica in visite di archivi, biblioteche, musei". Un "grande abbuffata", quindi, di speranze, cibi e libri.

Tutto ciò di cui Doria sembra aver bisogno, e con lui il milieu di riferimento ruotante intorno a Benedetto Croce, sembra racchiuso nelle pagine di questo breve racconto: amicizia, ironia, cibo, letteratura, sogno, piacere conviviale, libertà materiale e intellettuale, ricerca erudita, bibliofilia non fine a se stessa. Doria stesso aveva subito il pesante maglio censorio mussoliniano, con la radiazione dall'albo dei giornalisti per un suo breve pamphlet ironico scritto contro il concetto di romanità fatto proprio dal fascismo. Il racconto Romolo, Remo & C. (1927) fece infuriare Mussolini in persona che non gli perdonò l'affronto.

L'intera vicenda narrata non è altro, lo abbiamo accennato, che il racconto di un sogno che coglie il Nostro intento a leggere, seduto di fronte al camino acceso, il catalogo antiquario del libraio Dura di Napoli. L'incipit rispecchia quello di un classico della bibliofilia europea dell'Ottocento, Le crime de Sylvestre Bonnard, Membre de l'Institut di Anatole France, considerato testo di riferimento dei bibliofili con la celebre frase sull'importanza della lettura dei cataloghi: "[…] Lo lasciai alle sue riflessioni [il gatto Amilcare, N.d.A.] e aprii un libro che presi a leggere con interesse, perché si trattava di un catalogo di manoscritti. Non conosco lettura più facile, più attraente, più dolce di quella di un catalogo"; mentre in Doria: " […] trascinai una poltrona innanzi al camino, mi ci accomodai nel miglior modo possibile, e mi abbandonai alla mia lettura preferita: il vecchio Catalogo del Dura di Napoli". Ma quello che qui ci interessa è l'aspetto gastronomico del Sogno doriano, la descrizione precisa che egli fa di quel magnifico banchetto, una descrizione che può apparire, nel contesto di quegli anni, quasi un affronto alla miseria e alla fame. Doria stesso è ben cosciente di questo e subito chiarisce i termini della questione: "Vogliano i lettori perdonarmi se, riferendo questa parte del sogno, risveglierò le loro insoddisfatte brame, li indurrò nel peccato mortale dell'invidia; ma anche io, quando, risvegliatomi, dovei amaramente convenire che il sogno era proprio sogno, ero bensì da compiangere".



Già dalle prime pagine il racconto ci introduce nello splendore magàto del castello dove la zia attende l'arrivo dei due ospiti. La sala da pranzo è sontuosamente preparata e nulla è lasciato al caso: "[…] la tavola era preparata con tovaglie di Fiandra, piatti di Sèvres, cristalli di Boemia, argenteria di Mappin". Già gli antipasti sono un elenco ininterrotto di leccornie: capicolli del Salernitano, coppe del Lazio, prosciutti dell'Avellinese, galantine di pollo, acciughe di Palinuro, filetti di sgombro di Nantes, sardine portoghesi, caviale nero e rosso, bottarga della Sardegna. Addirittura si parla di improbabili "cervelli di pavone intrisi di miele, cannella e noce moscata". La sequenza pantagruelica è di un'irresistibile vena ironica: lepre in salmì, cinghiale in agrodolce, beccaccino e faraona, aragosta all'americana, daino, gigot di montone e pizze e rustici e trippe al modo di Caen, poi caciucco viareggino, bouillabaisse marsigliese, capretti, rognoni, fegatini, midolli, in un vortice culinario dove chi più ne ha più ne metta, e immaginiamo il povero lettore che in quel '44 doveva fare i conti col poco e scadente cibo in circolazione, altro che leccornie!

Tutto il pentagramma gastronomico viene utilizzato dallo scrittore in maniera apotropaica, esorcizzare la fame e la povertà con l'elencazione esasperata, evidente, sfacciata, del suo contrario, dell'opulenza, almeno in sogno dove tutto è concesso. Anche i dubbi suscitati nel lettore svaniscono di fronte all'evidenza onirica: "Se il lettore è ancora vivo dopo questo disadorno riassunto, egli vorrà pur chiedere: o come è possibile mangiar tanta roba? Non sentiste nausea? Non iscoppiaste? Ma era un sogno, signore, era un sogno".

La successiva carrellata dei liquori e dei vini è linguisticamente assai elegante e deliziosamente retrò: cervogie, claret-cups, sidri, idromeli, ippocrassi, liquori, vini bordolesi, borgognoni, renani, mosellani, pannonici, iberici, greci e siculi, pedemontani ed etruschi, valtellinesi e appuri, romani, formiani, flegrei e vesuviani. Poi Doria scende nei particolari vinicoli dimostrando ampie cognizioni che ritroveremo in seguito: vino delle Cinque Terre del territorio della Spezia, i crus del taurasino nell'Irpinia, del calabro Orsomarzo, il Sassuolo, il lambrusco fino al vino di Trécchina, nome però ignoto ai due protagonisti, al che vengono informati che trattasi di vitigno della Basilicata:


Bevendo del vino di Trècchina
un dito soltanto ogni dì
a più di ottant'anni morì
di corpo e di mente sanissimo
da tutti ammirato ed amato
il nostro gran conterraneo
don Giustino Fortunato.

Infine è la volta dei dolci e della frutta e anche qui è tutto un lussureggiante ed esotico elenco quello che investe il povero lettore: l'ababaxì, ananas e artocarpo o frutto del pane, papaia e abacate, mango e anona, banana e datteri, e poi ponci e caffè arabici, brasiliani, antillani e giavanesi. Una conclusione pirotecnica per un racconto assai elegante, un conte gastronomique più volte ristampato fino alla recente edizione del 2005, e che è diventato negli anni il migliore biglietto da visita dell'erudito scrittore napoletano. Il Sogno diventa nelle sue mani un vasto libro gastronomico come lui stesso scrive, e dove le varie parti diventano i capitoli di questo libro: "ma vi erano poi le appendici, le giunte ed emendazioni, l postille, le note, le glosse, le mantisse, gli addenda, i corrigenda, quasi che quel libro fosse stato redatto e annotto dal venerando eruditissimo amico Fausto Nicolini". Come si vede tutto parte dal libro e in esso si espande e con esso termina; per la verità il catalogo Dura, da cui principia il Sogno, alla fine finirà per sbaglio nel camino, prendendo fuoco come capita ai libri di Pepe Carvalho, il protagonista dei romanzi di Manuel Vasquez Montalbàn, che non per bibliofobia li bruciava ma perché, come lui stesso dice, la letteratura nulla gli aveva insegnato.

Anche nella successiva "abbuffata" nella straricca biblioteca Doria avrà modo di entrare in campo culinario citando nientemeno che Giacomo Leopardi, del quel sogna di trovare una lettera indirizzata al caro barone Vito, cioè al famoso gelatiere napoletano Vito Pinto che aveva bottega alla Carità e dei cui sorbetti il poeta recanatese era ghiottissimo (lo celebra addirittura nei Nuovi credenti). In questa lettera Leopardi ordina a Pinto addirittura 24 gelati, suddivisi in 8 pezzi duri, 8 fette di spumone e 8 coviglie; e chissà se il poeta possedeva, nella ricca biblioteca paterna di Recanati, copia dell'opera settecentesca di Filippo Baldini De' sorbetti.

Esattamente vent'anni prima (1924) Doria aveva descritto un altro banchetto, questa volta reale, organizzato a Napoli nella "cantina" di Michele Capasso nella strada di Santa Maria la Neve, nel popolare quartiere della Torretta. L'occasione fu data dalla pubblicazione, presso l'editore Laterza di Bari, del volume che il pittore Ezekiele Guardascione aveva dedicato a Gioacchino Toma, il banchetto era appunto in suo omaggio. Vi parteciparono, tra gli altri, Flora, Ricci, il poeta Ferdinando Russo, il commediografo Roberto Bracco, naturalmente Benedetto Croce, e Doria dedicherà all'evento una delle sue caratteristiche pagine rievocative (La cena di Guardascione).
Vini italiani
Lo scrittore tornerà ad occuparsi di enogastronomia in altre occasioni, dando anche prova di rara competenza enologica: "Finissimo intenditore, oltre che di letteratura e di libri antichi, anche di vini celebri, ne beveva volentieri, quando le sue non ricche risorse finanziarie glielo permettevano, e noi lo burlavamo affettuosamente dandogli dell'"enologo", come ricordava Alessandro Cutolo.

Nel 1951, infatti, dedica uno scritto a tre celebri vini campani, pubblicato in Vini italiani, una bella raccolta di vari autori tra i quali Valeri, Grande, Bartolini, Tecchi, Patti, Tallarico e Dessì, edita dalla Radio italiana. Doria scrive del Falerno, del Gragnano e del Capri, sempre con spirito tra l'erudito e il colloquiale, alterando precisi dati storici a giudizi personali. Lo scrittore si chiede a un tratto se il Falerno esista ancora, fornendo una risposta che rivela una conoscenza non superficiale dell'argomento: "[…] alcuni intendono che il vero Falerno si produca ancora nel territorio del Massico, altri che vada identificato con i vini del Monte Gauro, nella zona puteolana. Ci piacerebbe combinare le due ipotesi e comprendere, sotto quel nome che ha il solo torto di rimanere con Averno, tutti i vini stillati dal vitigno Aglianico, fra Castellone di Gaeta e la Solfatara". Doria coglie anche l'occasione per ricordare le caratteristiche che il poeta latino Orazio attribuisce al Falerno: nero, poderoso, amaro, oppure l'altra molto bella data da Persio: indomitus. Discorre poi del Capri collocandolo, naturalmente, nel suo fascinoso ambiente isolano e il cui protagonista non può che essere l'imperatore Tiberio (anzi Timberio), che amava soggiornare per lunghi perodi a Capri. In ultimo Doria scrive del Gragnano, descrivendo il paesaggio montuoso a nord di Castellammare da cui il celebre vino origina. Storicamente il Gragnano viene indicato come vino da arrosto, ma in quelle zone, ci ricorda lo scrittore, l'arrosto si mangia poco; per questo esso "va bene anche con i maccheroni che sono un altro prodotto della regione". Il Gragnano appare come un vino sano nel quale la gente del luogo trova "non la cupa rassegnazione o lo sfogo di un rancore, ma la superiorità di sorridere, comprensiva e indulgente, sulle proprie traversie". A questo vino sono anche dedicate alcune belle pagine dello scrittore Alberto Consiglio (La "traffica" del Gragnano).



Alcuni anni dopo Doria tornerà su tematiche gastronomiche. Nel '61 e nel '64, infatti, collabora ad una interessante pubblicazione curata da Mario Dell'Arco L'Apollo buongustaio. Almanacco gastronomico, che Dell'Arco così definiva: "Un almanacco gastronomico è un incontro a tavola. Una tavola affollata dalle più assortite vivande, ai vini più generosi: e quindi l'intesa tra saggisti, poeti e narratori è subito raggiunta… una tavola d'eccezione, dove hanno preso posto, con tutto il sussiego richiesto al rango, saggisti, narratori, poeti e anche giornalisti". Doria si troverà così accanto a Baldini, Prisco, Chiara, Palazzeschi, Cecchi, Marotta, Sciascia e Gadda, ognuno col compito di scrivere di una pietanza della propria regione. Nell'Almanacco del '61, arricchito da disegni di Domenico Purificato, lo scrittore ricordava la figura di un simpatico cuoco napoletano, soprannominato Pescecane, da lui conosciuto nella colonia italiana di Rio de Janeiro; mentre nell'edizione del '64 descriverà un elemento base dell'arte culinaria napoletana, il mazzetto: "L'elemento più umile, ma anche essenziale della cucina napoletana è il "mazzetto", altrove definito "odori". E' un piccolo fascio di erbette che serve a dar gusto al brodo, ed è generalmente composto da sedano, prezzemolo, carota, cipolla, maggiorana e basilico". In questa, come in altre occasioni, la cucina è per Doria spunto e pretesto per rievocazioni storico-letterarie e di costume, di cui è maestro riconosciuto.

A questi anni risale anche una sua deliziosa breve pagina in cui scrive di gastronomia seicentesca, epoca ricca di trattati culinari. Lo spunto sono le nozze di Marcella Mattioli con Francesco De Stefano di Ogliastro, figlia del suo amico Mario, celebrate il 25 aprile 1962. Nell'occasione fu ripresa una antica e benemerita tradizione letteraria, quella dei nuptialia o pubblicazioni per nozze. In particolare Mattioli volle ristampare in anastatica una breve sezione del trattato Lo Scalco alla moderna di Antonio Latini, pubblicata a Napoli nel 1692. La scelta cadde sulla descrizione di un sontuoso banchetto, con l'elenco completo delle portate, il tutto "condito" dalla dotta introduzione doriana (Un banchetto nuziale del Seicento).

Infine nel '68 lo scrittore tornerà ad occuparsi di cibo in Storielle gastronomiche, sempre alla sua maniera, alternando aneddoti e notizie, in bilico tra erudizione e divagazione, seriosità storica e verve umoristica. Ci piace pensare che proprio queste sue ultime storie chiudano il cerchio di una vita vissuta all'insegna dell'amicizia e della convivialità, di cui il Sogno del '44 era il cardine.







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