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Le Marche... l'orto del vino
di Andrea Zanfi (*)

Dopo aver viaggiato, vissuto, visto e percepito, attraverso un contatto epidermico e umorale, i molteplici aspetti che caratterizzano e contraddistinguono le principali aree vitivinicole della Toscana, della Sicilia, del Friuli e del Piemonte, nel quinto volume della collana "I grandi vini d'Italia" ho voluto raccontarvi le Marche.
A dispetto di ogni logica programmazione editoriale, e contro il parere di qualsiasi strategia e opportunismo economico, eccomi qui, puntuale come ogni anno, ancora una volta, a presentarvi un nuovo libro che si prefigge, come quelli che lo hanno preceduto, di fotografare non solo la migliore produzione enologica di una regione italiana, ma di comprenderne, soprattutto, il suo divenire.
Un nuovo volume, con nuove storie, non semplice da realizzare, poiché quello richiesto dalle Marche non è stato un impegno né facile, né tanto meno scontato.
Anzi, devo dire che si è trattato di un lavoro articolato, lungo e impegnativo che in certi momenti mi ha confuso e ha richiesto da parte mia un'attenzione particolare fatta di estenuanti e lunghe degustazioni e di settimane vissute direttamente sul territorio, con visite giornaliere alle aziende.
Dopo aver visto quali fossero gli aspetti della viticoltura in altre regioni italiane, aver percorso migliaia di chilometri incontrando decine di produttori e aver degustato le loro produzioni enologiche in occasione di cene, incontri ufficiali, convegni, conferenze e presentazioni, pensavo francamente che in questo viaggio marchigiano tutto mi sarebbe stato più semplice. Ma non è stato così e non mi hanno agevolato neanche le oltre cinquecento cantine visitate in passato.
Come se ne avessi avuto ancora bisogno, una volta di più ho ricevuto l'ennesima conferma che ad ogni azienda corrisponde sempre una storia che si integra perfettamente nel contesto socio-culturale in cui opera; un contesto che resta unico e che non potrebbe mai essere replicato in nessun'altra parte del mondo.
Storie inimitabili di uomini e territori, nelle quali si uniscono il saper fare con la tradizione, il passato con il futuro, le vecchie con le nuove generazioni, i sogni con i pregiudizi, le paure con i desideri, in un mix composto da una serie infinita di variabili sempre diverse fra loro e che è necessario considerare con la massima attenzione e concentrazione per non rischiare di essere banali e ripetitivi.
Un viaggio difficile, come al solito direi, ma che ha trovato spunto ed energia dal mio desiderio di curiosare, capire, osservare ed esaminare le esperienze e i modi che altri hanno di interpretare e concepire questo variegato mondo del vino.
Mi sono lasciato piacevolmente andare nella descrizione di una nuova regione e di nuovi vignaioli, cercando di raccontarvi le caratteristiche di questi grandi solisti della vigna che ho scoperto essere, più che in qualsiasi altra parte d'Italia, poco avvezzi a "cantare in un coro".


Le Marche... l'orto del vino

Ho provato a stimolarli, a provocarli, cercando di abbattere quell'innata reticenza al dialogo che li contraddistingue, fornendo loro l'opportunità di raccontarsi e di sentirsi, per una volta, artefici della promozione del loro splendido territorio, contribuendo, attraverso questo mio lavoro editoriale, a dare lustro ad una terra che viene relegata ai margini del panorama enoturistico nazionale da stereotipi, luoghi comuni o dallo sciocco "sentito dire" di chi con maggiore o minor merito opera dietro a una scrivania.
Da buon cantastorie, ho cercato di trasferirvi le molteplici emozioni, le passioni, la rabbia, le delusioni, l'amore, le gioie, le frustrazioni, i dubbi e gli interrogativi che questi produttori mi hanno trasmesso con i loro racconti e le loro storie di vita che ritengo siano letture perfette attraverso cui comprendere facilmente lo spirito che anima il comparto vitivinicolo di questa regione, anche e forse più del valore, peraltro soggettivo, che si può attribuire in una degustazione al terroir di un Verdicchio, di un Rosso Conero o di una Vernaccia di Serrapetrona.
In queste pagine ho voluto descrivervi le "mie" Marche e l'ho fatto affidandomi a quel background in mio possesso, alimentato dalle molteplici esperienze raccolte nel corso di questo mio quinquennale viaggio alla scoperta del meraviglioso "vigneto Italia".
Eccomi quindi qui, nelle Marche, proposte anche nell'ottica dell'alternanza fra una regione vitivinicola di notevole importanza, come il Piemonte, che ho presentato con il volume del 2005, e una regione che, di contrasto, per me era catalogabile nella ristretta schiera di quelle "emergenti".
Già da qualche anno mi arrivavano, da più parti, segnali importanti di un suo risveglio enologico e, anche se giungevano un po' tardivi rispetto al momento storico che aveva visto l'esplosione dell'enologia nazionale alla fine degli anni '90, decisi che quegli input meritavano, senz'altro, la massima attenzione.
Non nego che facevo uno sforzo notevole a dare una location precisa a questa regione, non tanto per una soggettiva e scarsa conoscenza geografica dell'Italia, ma più per una difficoltà oggettiva di reperire nella mia mente un'immagine che fosse in grado di coniugare quel territorio a quelle emozioni gustative che percepivo nei vini; un connubio con il quale avrei potuto valutare la tipicità, la rintracciabilità e soprattutto la "marchigianità" di ciò che andavo degustando.
Ma dove erano le Marche? Era questa la domanda che ogni tanto mi ponevo e alla quale, malignamente, qualcuno rispondeva che si trovassero appena sotto Rimini. Mi ritornarono alla mente lontani ricordi di un fanciullesco viaggio con mio zio Azeglio. Era il 1958, avevo appena sei anni e, se ricordo bene, a bordo di un camion Fiat Leoncino carico di libri, lo accompagnai nelle Marche, scoprendo per la prima volta non solo il mercato di Ancona, ma anche l'alba che mi abbracciò con un sole grande e rosso come non avevo mai visto prima, che sorgeva, con mia grande meraviglia, dal mare. Reminescenze che si arricchivano con altri ricordi, di vent'anni dopo, e precisamente con i miei otto giorni di CAR trascorsi a Fano o con memorie scolastiche di sanguinose battaglie tra Romani e Piceni o con lo studio più recente dei quattrocento anni di dominio esercitato su queste terre dalla Chiesa di Roma e l'utilizzo, da parte della stessa, dei marchigiani come esattori delle tasse, da cui il famoso detto che racconta "meglio avere un morto in casa che un marchigiano all'uscio".
Ricordi, memorie, studi, aneddoti e leggende che cercavo di interpretare e approfondire per conoscere meglio ciò che avrei incontrato di lì a poco e che comunque mi riportavano alla sola cosa di cui ero davvero sicuro riguardo alle Marche e cioè che qui erano nati uomini del calibro di Raffaello, uno dei più grandi pittori italiani e di Leopardi, il padre della poesia moderna.

Ma qualsiasi sforzo io potessi fare mi rimaneva difficile inquadrare questa terra, soprattutto perché non capivo il motivo per cui questa fosse l'unica regione italiana declinata al plurale: le Marche.
Che cosa c'era e c'è dietro a quel "le" Marche? Quali culture, tradizioni, dialetti e abitudini di popoli e genti diverse? Quali sarebbero state le domande alle quali la mia penna avrebbe dovuto tentare di dare una risposta? Quanto avrei impiegato a comprendere questi vignaioli marchigiani?
Tutto mi stimolava e fin dalle prime giornate trascorse in questa regione mi appassionai al viaggio, avendo la netta sensazione che qualsiasi azione io avessi intrapreso, queste terre si sarebbero spalancate ai miei occhi e mi sarebbero finalmente apparse come un tesoro, lo stesso che percepivo nascosto un po' ovunque io andassi.
Ma non comprendevo il suo valore, né quanto lo stesso potesse essere importante: avevo solo la certezza della sua presenza e la cosa mi invogliava a cercarlo, pur sapendo che portarlo alla luce avrebbe significato un grande impegno di scavo che mi sarebbe stato reso difficile dalle paure e dalla diffidenza di quegli stessi interlocutori che, via via, andavo incontrando. Man mano che trascorrevano i giorni scoprivo paesaggi di una bellezza unica, composti da alte colline che si alternavano a valli che digradavano, trasversalmente, fino al mare. Tutto sembrava assomigliare ad un moto di onde che, increspandosi alte e possenti, precipitavano verso le valli sottostanti per risalire di nuovo su a comporre altre colline, dominate da antichi paesi come vigili osservatori di quei fiumi che scorrono nel fondo valle. Paesi ricchi di castelli e roccheforti, cupole e campanili che svettavano come alberi maestri di antichi velieri sulle cui vele, spiegate al vento, sembravano disegnare i "greggi" delle case che sonnecchiavano indifferenti al mio passaggio.
Terre che erano state un tempo feudi di grandi famiglie patrizie, di papi, di guerrieri e di imperatori e che ora mi apparivano prive di quell'antica, nobile e fiera presenza, ma che trovavo tuttavia ricche di una genuina vitalità e che, via via, andavano colorandosi ora dell'oro del grano e del giallo dei girasoli, ora del verde ramarro dei vigneti o del rosso dei papaveri e del verde scuro degli olivi, ora del bianco crepuscolare delle spiagge di questo "selvaggio" mare Adriatico "senza tramonto", come lo vide D'Annunzio.
Camminando in equilibrio sulle cime di quelle colline avevo la netta sensazione che la strada che stavo percorrendo non fosse solo un confine fisico che separava due vallate, ma bensì uno spartiacque culturale fra mondi distinti che viaggiavano parallelamente senza mai incontrarsi, come i fiumi che scorrevano a fondo valle.
Strade che sembravano delimitare perfettamente non solo il confine di quel plurale, "le" Marche, che era l'oggetto della mia ricerca, ma anche la definizione delle aree di competenza dei dialetti, che il mio orecchio percepiva come vere e proprie lingue, con vocali affossate nell'accento come scassi di vigne o come quei solchi di fossi che delimitano i confini dei campi. Dialetti duri, tipici, che non rappresentavano dei semplici modi di dire, ma racchiudevano in sé, storie, usi, costumi e abitudini diverse da comprendere per chi come me veniva da fuori e soprattutto perché, ahimè, qui non c'era nessuno che avesse la voglia di spiegarmelo. Quello che avevo scoperto era un plurale che ai miei occhi aveva molti significati e che un po' nascondeva le discordanze che avevo percepito fra il nord e il sud di questa regione e le differenze che esistevano fra le stesse province, poche, vicine, ma fatalmente distanti. Quello che andavo scoprendo non era un sistema unico, ma molti sistemi, frammentati e certe volte in contrapposizione fra di loro, i quali certe volte avevano al contempo non un referente chiaro e preciso, ma più referenti, ognuno dei quali sembrava voler portare l'acqua al suo mulino. Viaggiando cercavo di scoprire quali fossero le anime che caratterizzavano queste Marche, provando a immaginare quanto avesse inciso la mezzadria in quella cultura contadina che andavo visitando giornalmente o quante e quali fossero le contraddizioni che mi raccontavano i limiti e i successi di quel benessere latente che percepivo ovunque e che si era costituito sul duro lavoro di quel "metalmezzadro" che, per anni, aveva sostenuto l'industria e mantenuto viva l'agricoltura.
Per lunghe settimane ho percorso strade tortuose che mi hanno condotto a cantine che, spesso, mi testimoniavano la qualità e l'eccellenza dei vini marchigiani e i grandi risultati ottenuti da questi vignaioli che silenziosamente, tenacemente, caparbiamente e onestamente hanno lavorato in maniera assidua per cambiare il corso delle cose, ma che, contemporaneamente e sistematicamente mi dimostravano, dall'altro lato e nella loro complessa semplicità, i loro limiti comunicativi e la scarsa attitudine all'ospitalità.
Non nascondo che, molte volte, demotivato per certe intollerabili mancanze d'attenzione e per la totale carenza dei più elementari canoni d'ospitalità, che credo meriti qualsiasi viaggiatore che si affaccia sulla porta di una cantina, sono stato intenzionato a voltare le spalle a qualche azienda che, invece, oggi è presente in questo libro. Per far questo ho attinto alla mia cocciuta determinazione, forgiata alla corte di quei testardi e veraci contadini friulani e piemontesi e che mi ha spinto alla comprensione e al buon senso.
Nel loro insieme queste Marche mi sono apparse terre strane, anzi direi difficili e molto più complesse di quanto diano a vedere.
Chiuse e restìe a farsi scoprire, sono sicuro che a molti risulteranno all'inizio più percorribili che fruibili, ma è proprio questa loro unicità, la forza che rende intrigante un viaggio enoturistico nelle Marche, che deve essere condotto alla scoperta delle peculiari caratteristiche che creano il distinguo sia fra i vignaioli, sia fra le varie aree vitivinicole che caratterizzano il territorio.
Devo assicurare che questi produttori mi sono apparsi personaggi veri, schietti, puri e semplici nel loro insieme, spesso però arroccati dietro a una riservatezza quasi ottusa che si chiude ancor prima di aprirsi e che difficilmente li conduce a una visione d'insieme, completa e costruttiva. Ognuno è dedito al suo lavoro, ognuno è attento a coltivare il proprio orticello, ma questi sono orti che, per concetto, risultano essere sempre piccoli e recintati, dentro i quali si produce e si respira quel tenace attaccamento al "frutto" che è tipico di chi ha avuto sempre poco da spartire. Orti che hanno consentito alla gente prima di sopravvivere e poi di costruire un futuro che fosse il più lontano possibile dalla miseria, di cui nessuno vuol più sentir parlare e che troppo spesso, nascosta in una pudica riservatezza, mi ha privato di quelle memorie storiche che sicuramente avrebbero arricchito i miei racconti.
Con il passare delle settimane nelle parole dei produttori intuivo un'impercettibile sensazione di disagio che non era riconducibile solo al malessere generale che da qualche anno ha colpito un po' tutto il settore vitivinicolo nazionale, ma all'incapacità o all'impotenza di dare risposte collettive alle sfide che il mercato sollecitava.
Nelle loro parole intuivo il desiderio di comunicarmi quante e quali fossero le grandi potenzialità che sanno offrire queste Marche e per scoprirle fino in fondo compresi che l'unica arma che avevo a disposizione e che avrebbe potuto aiutarmi a capire era nascosta nell'animo di quei vignaioli con i quali andavo interloquendo; erano nient'altro che la somma della cultura, delle tradizioni e della storia orale di quella terra che avevo deciso di raccontare. Anche i vini, che andavo degustando, mi regalavano splendide sensazioni le quali, per la maggior parte, non erano classificabili con le esperienze precedenti, a testimonianza di una tipicità che incontrava, molte volte, anche l'eccellenza.
Col passare del tempo mi accorgevo che la semplicità di quella ruvida provincialità contadina, che all'inizio mi era sembrata dura e spigolosa, aveva invece un suo grande fascino. Avevo la sensazione che si mantenesse in equilibrio con il tempo e con un livello qualitativo della vita che in molti, in altre parti d'Italia, vanno cercando.
Era quel lento procedere che accompagnava la mentalità della gran parte dei produttori che mi entusiasmava, anche se comprendevo che quello "slow" risultava inadeguato ad affrontare le sfide della globalizzazione.
Notavo che molti, pur percependo il bisogno di dare risposte concrete, erano protesi più a fare i vignaioli, che a preoccuparsi del come o del quando agire.
Alla fine del mio viaggio mi sono fatto una personale idea della realtà di questa viticoltura marchigiana che ha grandi potenzialità, solo in parte espresse, ma che giostra su registri della ristretta volontà e dell'ingegno di pochi singoli vignaioli, molti dei quali, fino a pochi anni addietro, avevano scartato un confronto diretto con il mercato, preferendo, attraverso una buona produzione, sostenere altre aree vitivinicole di importanti regioni come la Toscana, il Trentino e il Piemonte, commercializzando per lo più del vino sfuso e perseguendo politiche produttive utili solo al soddisfacimento di un immediato e personale tornaconto.
Così mi è sembrato di percepire che si fosse costruita un'enologia naïve, incapace ancora di promuovere, nel suo insieme, il "vigneto Marche" e che, risvegliatasi dal suo torpore, si era messa a correre improvvisamente senza una storica base culturale su cui costruire una progettualità.
Posso comunque assicurare di aver visitato una grande regione e di aver conosciuto buoni vignaioli e gran belle persone alle quali auguro, attraverso questo mio libro, non solo di vendere qualche bottiglia di vino in più, ma di adoperarsi per sentirsi tutti insieme un po' più marchigiani e meno ascolani, anconetani, maceratesi o pesaresi.


(*) Da: Andrea Zanfi, Le Marche... l'orto del vino, Carlo Cambi Editore, pp. 32. € 70,00, ISBN 88-88482-53-9

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