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Editoriale
Artusi e la scuola di cucina italiana a Bologna
di Giancarlo Roversi

Forlimpopolese di nascita (1820), quindi romagnolo di razza, Pellegrino Artusi ha il singolare vanto di avere dato un apporto singolare all'unificazione dell'Italia a tavola, contribuendo a far meglio conoscere gli abitanti della Penisola fra loro, dal nord al sud, almeno a tavola. Il suo trattato culinario (La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, 1891) è infatti il primo ad avere accolto piatti con radici in quasi ogni regione. Con la sua fortunata opera l'Artusi ha contribuito anche a una maggiore omogeneizzazione fra i cittadini del Bel Paese, solo da poco diventati compatrioti, alla loro unificazione letteraria o almeno linguistica, grazie a un potente mezzo di comunicazione come un libro di cucina che costringeva chi lo consultava a prendere dimestichezza con la lingua italica. Un raffinato e perspicuo indagatore della cultura del cibo come Piero Camporesi, ha scritto addirittura che il libro dell'Artusi ha contribuito all'unificazione nazionale "più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi sposi" manzoniani.
Del resto come il Manzoni, anche il nostro gastronomo, trascorrendo la seconda parte della sua vita a Firenze, aveva potuto risciacquare i propri panni in Arno e offrire ai lettori un testo purgato da barbarismi e quindi accettabile anche sotto il profilo divulgativo se non didattico.
Pellegrino Artusi
L'Artusi e la sua opera, sono stati trattati e radiografati sotto tutte le angolazioni.
A rimanere abbastanza in sordina, benchè rievocato spesso in chiave aneddotica, è il rapporto del grande gastronomo romagnolo con Bologna e la sua cucina. Tra la città delle Due Torri e il gourmet di Forlimpopoli ci fu sempre un legame profondo, una sintonia sottile, come testimoniano alcuni elogi e richiami gratificanti verso Bologna e la sua tavola.

Oltre alla lunga frequentazione negli anni della prima giovinezza, quando mangiava alla locanda dei Tre Re con il patriota Felice Orsini che l'aveva ribattezzato "mangia maccheroni", l'Artusi tornò a più riprese nella città non più papalina per incontrare vecchi amici e per raccogliere le ricette culinarie più rappresentative. Le specialità petroniane inserite nel suo trattato, vanno dai maccheroni alla coratella d'agnello agli "stricchetti", al tonno sott'olio in salsa, al baccalà, ai tartufi, al fritto alla Garisenda, all'arrosto morto di pollo; dal pane alle scaloppine, alle cotolette di vitella di latte coi tartufi, al fritto composto e, ovviamente, ai celebri tortellini, senza dimenticare le "bombe composte" che, come riferisce lo stesso gastronomo, sono "scoppiate la prima volta a Bologna".
L'Artusi è anche quello che ha intrecciato l'elogio forse più caldo e convinto della tavola petroniana. Val la pena di riascoltarlo:
"Quando sentite parlare della cucina bolognese fate una riverenza, chè se la merita. É un modo di cucinare un po' grave, se vogliamo, perché il clima così richiede; ma succulento, di buon gusto e salubre, tanto è vero che colà le longevità di ottanta e novant'anni sono più comuni che altrove". Quelli che oggi credono che la cucina petroniana sia troppo pesante o dannosa per la salute sono serviti!

Ma cosa pensava l'Artusi degli abitanti della città ? "Sono i bolognesi gente attiva, industriosa, affabile e cordiale e tanto con gli uomini che con le donne si parla volentieri, perché piace la loro franca conversazione. Codesta, se io avessi a giudicare, è la vera educazione e civiltà di un popolo, non quella di certe città i cui abitanti sono di un carattere del tutto diverso".
Maggiore rilevanza assume la proposta dell'Artusi di creare sotto le Due Torri un "Istituto culinario ossia scuola di cucina...un'opera di beneficenza nuova in Italia...a cui Bologna si presterebbe più di qualunque altra città pel suo grande consumo, per l'eccellenza dei cibi e pel modo di cucinarli...Il mio Istituto dovrebbe servire per allevare delle giovani cuoche le quali, naturalmente più economiche degli uomini e di minore dispendio, troverebbero facile impiego e possederebbero un'arte, che portata nelle case borghesi, sarebbe un farmaco alle tante arrabbiature che spesso avvengono nelle famiglie a cagione di un pessimo desinare...Ho lasciato cader questa idea così in embrione ed informe; la raccatti altri, la svolga e ne faccia suo pro qualora creda l'opera meritoria. Io sono d'avviso che una simile istituzione ben diretta, accettante le ordinazioni dei privati e vendendo le pietanze già cucinate, si potrebbe impiantare, condurre a far prosperare con un capitale e con una spesa relativamente piccoli."

Per "raccattare" questa idea bisognava attendere il terzo millennio: a raccoglierla, ovviamente in chiave meno utilitaristica, non è stata però Bologna, ma Colorno, comunque sempre la terra emiliano-romagnola, culla di una passione antica per il mangiar bene.

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