Firenze 1929
L'antica tertulia dell'Antico Fattore tra arte, poesia, cibo e musica
di Massimo Gatta
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
[…]
Eugenio Montale
Circostanze imponderabili, casualità fortuite, coincidenze magàte, destini geniali, tutte insieme queste cose determinano, a volte, la nascita di eventi culturali irripetibili. Gli stessi protagonisti è difficile siano realmente consci dell'effettivo valore di ciò che loro stessi stanno realizzando.Eugenio Montale, protagonista di uno di questi eventi che cercheremo di raccontare, disse appunto che nessuno degli esponenti dell'Antico Fattore pensò mai di farne un luogo celebre. C'era invece, e forte, il richiamo giornaliero di una semplice trattoria fiorentina posta in una delle più belle e suggestive strade di Firenze: "Nella zona del Ponte Vecchio c'è la via Lambertesca, una strada corta, curva alla fine, che si muove dal porticato degli Uffizi e giunge fino alla via Por Santa Maria [...]. Là era questa vecchia trattoria, l'Antico Fattore: due stanze sulla strada e una saletta interna, un locale che aveva vissuto già allora un suo centenario di bottega di mercanti, quelli del venerdì in particolar modo, il giorno ufficiale del mercato in Firenze, quello che aveva ancora come luogo d'incontro per le trattazioni d'affari la vicina Piazza della Signoria". Una trattoria dove tu vai a mangiare accompagnato dal fascino di una cucina di secolari sapori, da un vino celebre come il Chianti, confortati dall'amicizia di proprietari competenti e cordiali, dalle pareti affrescate dai pittori amici, Carena, Magnelli, Peyron e altri.
Ma soprattutto un porto franco dalle brutture del periodo: "Se penso a quando ci si ritrovava all'Antico Fattore risento in me un profondo contrasto fra il ricordo del tono leggero, anche se tutt'altro che frivolo, delle nostre riunioni, e la pesante inciviltà di quel tempo. Quando entravamo nelle stanze di via Lambertesca era come se ciascuno di noi lasciasse alla porta un suo fardello di malinconia e magari di rancori, per accogliere in piena serenità la parola degli amici, la loro umana presenza", come ricordava il pittore Giovanni Colacicchi e che il più grande poeta italiano del Novecento così definì: "Quella che fu o che non fu l'antica tertulia dell'Antico Fattore", schietto cenacolo tra sodali uniti dal comune amore per l'arte, la letteratura, la musica e ovviamente la buona cucina.
Ma partiamo dall'inizio e come ogni favola che si rispetti iniziamo così: C'era una volta... già c'era una volta una semplice trattoria fiorentina che una sera ottobrina del 1929 (o novembrina secondo altre fonti) venne come dire "scoperta" per caso da tre artisti: lo scultore Libero Andreotti e i pittori Felice Carena e Alberto Magnelli. Subito pensarono di convincere il proprietario, Giulio, "alto, maestoso, che mai alzava la voce, gentile ed amichevole con tutti" (Dallapiccola), a lasciare loro la disponibilità, ogni mercoledì, della saletta interna che avrebbero usato per parlare tra amici di arte, scultura e letteratura.
Nasceva così quella "tavolata" che sarebbe diventata una delle più intense esperienze artistico-letterarie degli anni Trenta. I tre amici, uniti dal comune amore per la poesia, pensarono subito ad istituire un premio di poesia la cui giuria, è questa la particolarità, sarebbe stata composta non da addetti ai lavori (critici, letterati, professori) ma da artisti dello scalpello e dei pennelli, scultori e pittori quindi, affiancati da esponenti di varie professioni, ma il cui unico titolo a prendere parte alle votazioni era l'amore per la letteratura (pensiamo infatti che Gadda farà parte di una di queste giurie in qualità di ingegnere, anche se patito di letteratura!).
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Guido Peyron, Ritratto di eugenio Montale, anni Trena, Olio su tela. |
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In fondo una specie di rivincita da parte di chi era solitamente presentato e giudicato da critici di professione e che adesso poteva lui stesso giudicare scrittori e poeti.
Era l'arte che si prendeva la rivincita sulla letteratura, il gusto di attribuirle un premio quantificato in 1000 lire (meno 300 lire per la stampa della plaquette commemorativa), allora di certo una bella somma, ricavata dalla vendita delle opere artistiche messe all'asta in uno dei mercoledì nelle salette dello stesso "Antico Fattore", con opere di De Chirico, Carrà, Morandi, Andreotti, Carena, Sacchetti, Peyron, tutti amici della "tavolata". Ai tavoli di questa trattoria, come a quelli dell'altro storico cenacolo artistico-letterario della Firenze di quegli anni, le "Giubbe Rosse", era di casa tutta la redazione di "Solaria", una grande rivista per pochi, diretta da Alberto Carocci, Alessandro Bonsanti e, a fasi alterne, da Giansiro Ferrata, magna pars dell'operazione editoriale.
Gli amici fondatori stabilirono la prima edizione del premio di poesia, che prese il nome dalla trattoria stessa, da attribuirsi per l'anno 1931 ad una poesia inedita di autore italiano. Le riunioni del mercoledì erano sempre affollatissime; lo spoglio dei manoscritti, giunti in abbondanza, venne inizialmente fatto dal solo Libero Andreotti, per passare in seguito al vaglio anche di Arturo Loria e Candido Vanni. In finale tre nomi che si giocarono il premio della prima edizione: Eugenio Montale con la La casa dei doganieri, Salvatore Quasimodo con Vento a Tindari e Adriano Grande con Alla sera. Faccio solo notare, per sottolineare sia la qualità delle opere e dei poeti, sia il fiuto straordinario dei giudici, che i primi due poeti, all'epoca non certo famosi, ottennero entrambi in seguito il Nobel per la letteratura!
Ci fu grande indecisione sul nome del vincitore ma alla fine, mercoledì 27 maggio del '31, la giuria decise di assegnare il primo premio ad Eugenio Montale per la poesia La casa dei doganieri. Per tradizione la poesia vincitrice (insieme a qualche altra) veniva pubblicata dall'editore Vallecchi in una plaquette fuori commercio. La sera della premiazione la poesia fu letta dal pittore Giovanni Colacicchi; in copertina figurava un disegno dell'artista Guido Peyron (un vaso di fiori con aragosta su un balcone in riva al mare). Peyron è figura molto interessante di pittore-cuoco (diede tra l'altro a Montale i primi rudimenti della scultura), anche se giudicato da un esperto come Giulio un dilettante. E' lui, infatti, l'autore di un suggestivo e poco conosciuto ricettario, con in apertura la poesia di Montale Il gallo cedrone (1949) con la dedica "A Guido Peyron pittore e cuoco": "Dove t'abbatti dopo il breve sparo / (la tua voce ribolle, rossonero / salmì di cielo e terra a lento fuoco) / anch'io riparo, brucio anch'io nel fosso. [...]". Nella presentazione al volume Peyron sottolinea la particolarità del suo libro: "Questo libro, come vi dice il titolo, non è un trattato di cucina né uno dei "Re dei cuochi" di buona memoria: perciò non mi mraviglierei se qualche cuoco patentato mi dicesse, dopo averlo letto, di esserne rimasto quasi spaventato. E' semplicemente il racconto delle cose che mi piacciono di più, scritto in un linguaggio cordiale". Montale simpaticamente così ricorda Peyron in sua prosa: "Come cuoco toccò l'eccellenza dell'arte sua. Mediocre forchetta, non cucinava per sé ma per gli amici; alzava però troppo il gomito per confortare la sua solitudine, e ne pagò forse le conseguenze". Ma il poeta genovese ricorderà l'amico Peyron anche in una sua bella prosa del 1962, di carattere "gastronomico", Amici a tavola: "Quando tornavo a Firenze, l'invitato atteso, nello studio di Guido Peyron, ero io. Toscano di lontana origine piemontese, vissuto a Livorno nella prima gioventù e poi a Firenze, Guido non è stato forse un pittore di immenso talento, ma si considerava imbattibile come cuoco".
Qualcuno ha suggerito che Montale accettò di partecipare al premio non perché gli interessasse, ma per non farlo assegnare a Cardarelli. In ogni caso è bene ricordare che l'Antico Fattore fu, fondamentalmente, un'ottima trattoria toscana. La sua cucina, il sancta santorum, era un posto sacro, aperto da Giulio, il proprietario, solo agli amici o ai piatti di gastronomia, una stanza stretta e lunga che si apriva dopo aver superato
lo scalino di un pianale in legno posto dietro al banco maiolicato della mescita, così ricordato da Marcello Vannucci: "Era una stanza stretta carica di profumi di arrosti e salse, un vano che si apriva subito dopo avere superato il banco del locale. Lì ci sono state grandi discussioni sull'arte del mangiare bene: ricette segrete, mai cadute in mano alle signore che speravano sempre di convincere gli amici fortunati che avevano accesso al "sacrario" di Giulio, a rivelare le formule occorrenti; discussioni se una salsa dovesse essere così o così; se bisonasse caricarla di quella o di quell'altra spezia; se i fagioli alla toscana dovessero essere cucinati in un modo o in un altro. Montale era stato il più tardo a prendere questa abitudine della sosta in mezzo ai fornelli, ma poi fu anche fra i più assidui. Per Magnelli e Peyron, invece, che avevano il "pallino" d'essere dei grandi cuochi, era come un obbligo: c'era sempre in loro come un'aria di sfida nei confronti del "maestro" Giulio". Il quale era un uomo piacevole e sempre pronto allo scherzo, difficilmente arrabbiato anche nei giorni di gran pieno del locale, quando qualche cameriere non funzionava come lui voleva e le cose andavano al rilento, come ricorda ancora Vannucci. Nel locale c'era una cosa per lui sacra che mai doveva essere messa in discussione: il suo gatto soriano Vanni, dagli occhi verdi e argento, diventato a suo modo famoso per il disegno che ne fece Ottone Rosai. Famose anche le preziose ricette del sor Giulio, come le celebri rigaglie alla salvia o gli involtini di carne e carciofo o i vari aneddoti gastronomico-letterari: Gadda molto goloso, Carlo Bo che fa pazzie per un piatto di fagioli all'uccelletto, Tommaso Landolfi raffinato intenditore di vini, Luigi Dallapiccola che non avrebbe mai magiato un piatto di spaghetti appena più cotti del punto giusto, Prezzolini che dona a Giulio una copia del suo Maccheroni e C., appena pubblicato, dedicandoglielo, oppure le visite del grande fisico e "umanista" Sebastiano Timpanaro: "Quando Libero Andreotti fondò il cenacolo dell'Antico Fattore, Seb fu uno degli assidui. Gli adepti si riunivano il giovedì, mi pare, ma spesso disertavano; tuttavia finchè visse Andreotti e finchè l'Antico Fattore durò, Seb non mancò mai. Magiava là anche solo, per far atto di presenza, per creare una tradizione. Fanatico dell'arte, e più ancora degli artisti, non avendo mezzi per farsi una collezione di quadri ripiegò sulle stampe. Ne possedeva a migliaia", così lo ricordava Montale.
Per l'edizione del 1932 il vincitore del premio risultò essere Salvatore Quasimodo con la poesia Odore di eucalyptus, la terna finale composta da Glauco Natòli e Raffaele Gadotti, con l'esclusione di un celebre poeta come Alfonso Gatto. Anche questa poesia verrà poi stampata da Vallecchi e costituisce, al pari di tutte le altre plaquettes, una vera rarità bibliografica. Ricordiamo che lo stesso Quasimodo si era piazzato al secondo posto, nella prima edizione del premio nel '31 con la poesia Vento a Tindari.
Nello stesso anno gli amici dell'Antico Fattore pensarono di istituire anche un premio di musica che fu vinto da Pietro Montani. Invece la terza edizione (1933) del premio di poesia se l'aggiudicò Glauco Natòli, esimio francesista dell'università di Firenze, con la poesia Risveglio, anch'essa pubblicata da Vallecchi, (escluso ancora una volta Alfonso Gatto con la poesia Crepuscolo della sera), arricchita da disegni di Bacchelli, Bramanti, Gelli, Peyron, Marchig e Innocenti. L'edizione del '33 fu dedicata alla memoria di Libero Andreotti, scomparso all'inizio del '33. L'ultima edizione, quella del '34 prima del disastro della guerra che di fatto concluse la prima straordinaria "stagione" dell'Antico Fattore determinando un prima e un dopo, vedrà tre concorrenti disputarsi il premio: Cardarelli, Barile e lo sconosciuto Fenci, che in realtà altri non era che Vieri Nannetti, partecipante al premio sotto falso nome. Alla fine la spuntò Vincenzo Cardarelli con la poesia Sardegna.
Si può tranquillamente affermare che con il 1934 il Premio, e l'intera avventura artistico-letteraria dell'Antico Fattore, finì salvo qualche tentativo più tardo di restaurarlo dopo la fine del secondo conflitto bellico, come ad esempio fece il pittore e xilografo fiorentino Bruno Bramanti (1898-1957), a suo tempo amico di molti artisti legati all'Antico Fattore: "[…] uno dei pochi che, all'inizio degli anni Cinquanta, tenterà di ripristinare la consuetudine conviviale e letteraria del premio dell'Antico Fattore, rompendo il proprio naturale riserbo con una serie di inviti scritti a letterati e pittori". Nella trattoria intanto facevano il loro ingresso altri avventori di tutto rispetto, le "nuove leve" della letteratura: Bigongiari, Luzi, Parronchi, Gatto, Landolfi, Traverso, Delfini, Carlo Levi, Tobino. Come accadde per le "Giubbe Rosse" anche l'Antico Fattore si avviò ad essere un locale sorvegliato perché ritenuto politicamente pericoloso. La stanza della cucina era il posto più riservato per riunirsi; Levi, Landolfi, Gatto e Traverso erano spesso invitati a parlare (Vannucci). Col 1940, infine, giunse la guerra con le sue catastrofi e tutto s'annebbiò.
Molti anni dopo, nel 1997, la famosa società vinicola Chianti Ruffino (della famiglia Folonari) pensò di riportare quell'antico premio ai suoi fasti iniziali. Nacque così l'edizione 1997 del "Premio Letterario Internazionale Ruffino Antico Fattore" dedicato alla poesia, la cui giuria era presieduta da Carlo Bo. Quell'anno il premio venne assegnato ai poeti Fernando Bandini, Piero Bigongiari, Alda Merini, Roberto Mussapi e Andrea Zanzotto senza però che ci fosse un vero e proprio vincitore; per l'occasione fu pubblicata una elegante plaquette. L'anno successivo toccò invece ai poeti Eugenio De Signoribus, Harald Hartung, Alessandro Parronchi, Giovanni Raboni, Charles Wright, anch'essi ricordati in una analoga pubblicazione. Fu questa l'ultima edizione di un Premio che si volle strenuamente resuscitare ma che ormai era inesorabilmente scomparso da più di sessant'anni.
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