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Vini delle Langhe, vini della memoria
Leggere Soldati a Libri da gustare 2006.

Si è svolta dal 19 al 21 maggio a La Morra (Cuneo) la Decima edizione del Salone del Libro Enogastronomico e di Territorio.
La rassegna si avvale anche quest'anno della collaborazione di BAICR Sistema Cultura, che partecipa con un'iniziativa dal titolo " Degustazioni letterarie, ovvero letture al barolo: il vino nella letteratura da Francesco Redi a Mario Soldati. Assaggi di etichette dal territorio in abbinamento a racconti brevi, poesie e proverbi", un percorso bibliografico curato da Cultura Gastronomica Italiana. Tra i brani accuratamente e appropriatamente selezionati da CGI, per cura di Adele Blundo, con il contributo di Dario Simonetti, non poteva mancare un omaggio a Soldati e ai vini delle sue Langhe. Brano che, sempre grazie alla cortesia di Cultura Gastronomica Italiana, vi riproponiamo, ulteriormente "ridotto" per esigenze di spazio, in questo speciale.

"Langhe, i vini della memoria" di Mario Soldati

Soldati nella sua vita è stato tutto: romanziere, novelliere, poeta, arista e memorialista; autore di reportage, giornalista e curatore di riviste e guide enogastronomiche; autore teatrale, critico d'arte, critico cinematografico, regista (più di trenta film dal 1938 al 1959), sceneggiatore, attore, autore e protagonista di inchieste televisive.
Quello che aveva per il Piemonte, era più dell'amore che si ha per la propria terra natia: era l'amore di tutta una vita, quello dal quale si torna sempre dopo una scappatella.

Tratto da Vino al vino. Alla ricerca dei cibi genuini (Milano, Mondadori, 1981)

Qualcosa di me vive sempre in Piemonte con battiti affettuosi di cui scopro e riscopro l'origine. Asti, Natali fa. Due bottiglie di Barolo, dono di Gianni Brera.

[…]

La via principale di Asti, il lungo, stretto, lievemente sinuoso corso Alfieri che attraversa tutta la città da un capo all'altro, mi ha accolto tenerissimamente al mio arrivo da Genova e mi ha risucchiato come un solco sensuale fino alla piazza rossa: credevo che la dolcezza particolare di questo arrivo dipendesse molto semplicemente dal fatto che mi rendevo conto che stavo entrando in Asti, antica, simpaticissima, ribelle città piemontese e patria del grande poeta da me venerato. Solo oggi, col tempo, via via che questo arrivo a Asti comincia anch'esso a diventare un ricordo e inabissandosi nell'angosciosa oscurità del passato raggiunge rapidamente tutti gli altri ricordi, urto all'improvviso in uno di questi: già un'altra volta sono arrivato a Asti in macchina venendo dal sud! È capitato quarant'anni fa! La mattina di una vigilia di Natale eravamo partiti da Roma con un'Augusta, Ninetto Borghesio e io, torinesi esuli a Roma che tornavamo a casa per Natale. Se si pensa alla lunghezza del viaggio allora, Asti voleva dire Torino. Ma Asti, per noi, in qualche modo, fu più e meglio di Torino. Non so dire la bellezza del corso Alfieri in quella sera santa e festosa. La gioia dell'arrivo, poiché la fitta folla civile e la musica del dialetto in mezzo a cui procedevamo adagio, le botteghe illuminate di una calda luce gialla e le insegne con i noti nomi, Pasticceria Giordanino, ci dicevano chiaramente che eravamo arrivati - e la gioia suppletiva di desiderare ancora l'arrivo, poiché ci attendeva, prima di Torino, un altro pezzo di viaggio. Non si poteva, ahimè, tornare più in là di Torino. E quando saremmo arrivati a Torino vi avremmo trovato la tristezza di non di potere più arrivare visto che già c'eravamo. Asti, dunque, anzi il corso Alfieri che attraversa Asti per chi va a Torino, era la vetta della felicità.

Devo anche dire che sapermi qui a casa mi dava una strana sicurezza? È probabile. Non so, infatti, se altrove mi sarei rivolto con altrettanta fiducia a una persona che non conoscevo. Gianni Brera, l'anno prima, mi aveva regalato due bottiglie di un meraviglioso Barolo 1969. Le avevo bevute a distanza di tempo l'una dall'altra e in diverse condizioni: una a pasto con mio figlio Michele, l'altra fuori pasto e con amici. Ecco un caso in cui l'etichetta ha servito a qualcosa: mi sono segnato il nome e il luogo. Il luogo, notissimo: La Morra, zona del Barolo. Il nome, ignoto a me e ignoto fortunatamente anche ai sapientoni del commercio, ma di rassicurante rintocco piemontese: "Poderi e Cantine Fratelli Oddero".
Dall'Albergo Reale telefonai: "Potrei parlare con qualcuno dell'Azienda?".
Chi mi risponde è Luigi Oddero, uno dei fratelli: e precisamente quello che si occupa del vino. Gli dico del suo Barolo, che ho trovato perfetto. Senza arrivare a confessare la mia diffidenza per le grandi aziende, e tuttavia con una certa brutalità, gli chiedo quanto vinifichi. "Circa ottocento quintali" dice. E io taccio. Nonostante una certa esperienza che ormai dovrei avere acquistato, trovo difficile calcolare quale rischio, per la genuinità di un vino, significhino ottocento quintali. Senonché, Oddero, prontissimo, indovina quale perplessità significhino gli attimi del mio silenzio:
"Perché, dottor Soldati?" dice. "Ottocento quintali per lei è troppo?".
Mi conquista che Luigi Oddero abbia capito tutto. Prendiamo appuntamento per l'indomani mattina. La sua azienda e la sua casa sono alla Morra, a Santa Maria della Morra, la frazione più settentrionale. [...] Duecento passi più su, all'estremità superiore della frazione di Santa Maria, mentre i Martinat erano all'inferiore, sono gli Oddero. E la casa stessa che, a una svolta della salita verso La Morra, appare tra due abeti su uno sperone collinoso bianca, bassa, nitida, tranquilla, col suo lungo ballatoio di ferro al primo piano e le sue persiane verdi alle porte-finestre, si rivela subito, nella modestia, un perfetto esempio architettonico della grande civiltà dell'Ottocento: una struggente immagine del tempo, perduto e insuperabile, della borghesia piemontese.

Facile, sì, facilissimo, dal momento che mi appare questa casa così conforme alle mie memorie e ai miei sogni, supporre che gli Oddero appartengano ancora alla conservazione: sbaglierò tuttavia affermandone la vitalità a sua volta, un'altrettanta vitalità sebbene diversa?
Prima cosa: anche gli Oddero sono tanti fratelli, ma dell'azienda vinicola si occupa Luigi, il quale è anche scapolo e vive qui, solo insieme alla madre anziana. L'ufficio di amministrazione della piccola azienda è a terreno, una delle stanze della vecchia casa, arredate impeccabilmente stile inizio del secolo. L'azienda medesima, cantine di vinificazione e di invecchiamento, sono sotto, seminterrate dalla parte della collina, e aperte dalla parte opposta, verso la valle, alla fresca ventilazione di nord-est.
Ordine, pulizia, spazio. Una razionalità onnipresente e integrale, che non esclude mai il buongusto e che lo adotta senza cercarlo. A pensarci, il vero buongusto è sempre così: inconsapevole e involontario. Il padre, i nonni, i bisnonni di Luigi Oddero furono tutti vitivinicultori. I tipi prodotti sono prima di tutto quelli più particolarmente locali: Barolo, Barbaresco, Nebbiolo. Poi Barbera, e un po' di Freisa. Anche Oddero come Martinat segue naturalmente la regola: chiama Barolo soltanto i Nebbiolo di migliore qualità e maggiore gradazione. E anche lui coltiva le vigne di sua proprietà. Il Nebbiolo dei Roeri, cioè della sinistra del Tanaro, è destinato esclusivamente a vini leggeri, un po' amabili, chiamati Nebbiolo e imbottigliati a marzo. Il Nebbiolo di lì, della Morra, si tenta sempre di farne del Barolo o del Barbaresco.

[…]

Andiamo alle vigne più importanti, che sono anche le più vicine all'azienda: le vigne del Bricco Plaustra. Nel secolo scorso erano di un personaggio localmente famoso: il vecchio Parà. Oddero mi indica, in mezzo ai filari, sul punto più alto, una torretta svelta e strana. Di lassù il Parà sorvegliava la vendemmia, seguiva attentamente il lavoro dei braccianti, e se vedeva qualcuno che batteva la fiacca, lo redarguiva. "Una volta anch'io, per scherzo, sono andato lassù con un megafono, durante la vendemmia. Ma uno mi ha gridato: Ca cala p?ra giù, che i temp a sun cambíà! Del resto, lo sa come ho vendemmiato in quest'anno?".
"Con le macchine?".
"Per carità. Con gli studenti! Vengono apposta nella zona da Trieste, da Padova, da Bologna. Sono pagati mille lire l'ora. E lavorano benissimo!".
Mi guardo intorno, cerco di immaginarmi le vigne durante la vendemmia. Ma la bellezza stessa del paesaggio mi distrae. Il Bricco Plaustra è un vero altopiano che declina più bruscamente a settentrione e più dolcemente verso mezzodì. Stamattina il sole splende. E, oltre le colline di là dal Tanaro, oltre l'ampio arco della pianura del Po, le Alpi, dalle Marittime al Monviso al Rocciamelone al Gran Paradiso al Rosa, si levano con la loro grande massa appena segnata dalle ombre delle valli e dai contorni dei dossi, ma nell'insieme omogenea, sfumata, violetta, cenerognola, blu: più in alto la grande fascia bianca delle nevi, lo scintillio di ghiacciai e, contro l'azzurro diafano del cielo, il disegno articolato e nitidissimo delle creste. Riconosco qualcuna delle vette principali. Oddero, a proposito di una, mi corregge. È alpinista: l'unico impiego del suo tempo libero. Dice: "Come si fa non amare la montagna quando si vive qui!".
Sento che c'è un rapporto misterioso tra le Alpi e le vigne. La freschezza di quell'incorrotta atmosfera che i venti di marzo e aprile trasferiscono sulle Langhe e sul Monferrato deve per forza influire sulla crescita della vite, poi sulla maturazione dell'uva, infine sull'aroma del vino. Dico a Oddero che non ho mai visto vigne in una posizione così meravigliosa.

[…]

Vedo che parte dei filari sono, se non proprio antichi, all'antica, coi paletti di legno; una parte, invece, coi paletti di cemento: sono molto meno belli: contrastano con le vigne. "Meno belli? Sono anche meno robusti. Proprio qui, tempo fa, abbiamo avuto un tornado. I paletti di legno, più elastici, hanno resistito. I paletti di cemento si sono spezzati tutti!".
Ecco dunque un altro caso, tra tanti, in cui la modernità si dimostra, alla prova, meno razionale ed economica della tradizione. Torniamo a Santa Maria e assaggiamo.
Provo, direttamente spillato dalla botte, un Barolo'69, gradi 13,7. Sembra ancora giovane.
E provo, dal bottiglione, un Barbaresco '70, gradi 13,5. Perfetto: secondo a nessun altro.
"Commercialmente, purtroppo, c'è un po' il mito del Barolo" dice Oddero. "Ma lo sa che se avessi da vendere un pessimo Barolo e un'ottima Barbera, troverei sempre più facilmente da vendere il Barolo che non la Barbera?!". Continuo, frattanto, col bottiglione di Barbaresco. Ha questa particolarità: sembra quasi di poterne continuare a bere senza fine, tanto è equilibrato, completo, suadente. Intanto parlo con Luigi Oddero e lo guardo: il suo volto abbronzato, forte e fine, tranquillo e arguto, dal naso diritto e deciso, dallo sguardo intelligente, e la sua stessa persona robustamente nervosa, nel classico pied-de-poule del gentiluomo di campagna, hanno un rapporto con questo Barbaresco. Come tra le sublimi Alpi e l'umiltà delle vigne, così tra l'armonioso vigore del vino e l'ottocentesca vitalità borghese dell'individuo: un rapporto di perfezione.

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