Un Grand Tour imbandito dell'arte maestra tra '800 e '900:
La dotta illusione gourmand di un museo servito a tavola
di Tommaso Lucchetti
Si insiste tanto sulla pari dignità della tradizione gastronomica rispetto alle altre espressioni e testimonianze della storia. Molte iniziative si stanno facendo per equiparare le creatività alimentari alle altre tipologie di beni del patrimonio culturale distintivo di un territorio e del suo passato. E' una politica culturale sacrosanta che però viene spesso condotta con "operazioni" matematicamente improponibili:
|
Cena per due raffigurata su un menu d'artista |
|
aggiungere salumi, formaggi e conserve in vendita presso i bookshop dei musei accanto a libri d'arte e di storia locale può suonare un po' come l'abominio aritmetico di sommare addendi non omogenei. Infatti il teorema
proposto (entrambi sono espressione culturale di un territorio) va dimostrato: per farlo basta ricorrere al loro Massimo Comune Denominatore, ossia la storia, narrando il passato e le antiche tecniche esecutive di una creazione commestibile esattamente come si fa per un manufatto d'arte.
Troppo spesso infatti le tipicità sono trattate come specchietti per allodole: come mercanzie in fiera durante buffets ad inaugurazioni di mostre ed appuntamenti culturali danno la sensazione che nessuno sappia perché stiano lì. Richiamano come carote alternative al bastone i non interessati ad eventi di Cultura maiuscola (ci risiamo…vanificato lo sforzo di partenza), ed invece lasciano perplessi o indifferenti (quando non schizzinosi ed inorriditi) gli abituali esteti frequentatori di esposizioni d'arte e conferenze. Fortunatamente non tutte le iniziative a riguardo sono condotte con questo tremendo difetto originale.
Tra le tante soluzioni intelligenti e oculate si coglie qui l'occasione di ricordarne una. Alla fine degli anni '90 una storica dell'arte ed un'archeologa, Patrizia Fava e Simonetta Sanseverinati, lavoravano ormai da tempo alla promozione e valorizzazione dei beni culturali e delle istituzioni museali marchigiane.
Dopo tanti laboratori didattici, conferenze e cicli di incontri dedicati alle varie forme d'arte e d'espressione culturale del territorio idearono un grande corso di formazione che virtualmente le racchiudesse tutte, nella maniera più organica ed enciclopedica.
Pensando appunto al sapere raccolto da Diderot venne in mente sempre il Settecento ed il viaggio di formazione per i giovani europei nella terra delle meraviglie: "Grand Tour" si sarebbe chiamato questo itinerario ideale a ritroso sul sapere antico nelle varie epoche, in uno spettroscopio di tutte le arti ed espressioni creative, con lezioni di storia dell'arte, dell'architettura, della letteratura da viaggio, dell'arredamento, della moda, dei tessuti, degli arazzi, dell'oreficeria, della musica, ed infine anche della gastronomia e dell'arte conviviale.
Le lezioni di quest'ultima materia, condotte da chi scrive, si tenevano in cene dove tra una spiegazione e l'altra si assaggiavano pietanze delle varie epoche, tratte da ricettari e documenti originali, che non solo ricostruivano la cultura della mensa del periodo in esame, ma cercavano anche di cogliere le contiguità stilistiche tra le portate cucinate e servite ad effetto e le caratteristiche distintive delle produzioni artistiche di ogni epoca, sia nelle arti cosiddette "maggiori" che in quelle convenzionalmente chiamate "minori" o "applicate".
Le "lezioni conviviali" dei primi tre semestri (dedicati a Rinascimento e Manierismo, Barocco e Rococò, Neoclassicismo e Romanticismo) si svolgevano tranquillamente sui binari tematici di quei periodi ampi, indagando non solo i dettami della cucina e dell'arte del servizio, ma anche perlustrando le tipologie iconografiche legate al cibo, le arti applicate coinvolte negli arredi da mensa, e le progettazioni curate da celeberrimi artisti per feste ed apparati di cerimonie conviviali particolarmente sontuose e memorabili.
Diveniva invece più problematico gestire il singolo incontro per il semestre conclusivo, intitolato "Dall'Impressionismo al Futurismo": l'inquadramento era molto più serrato, scandito da correnti artistiche diversissime susseguitesi in un arco cronologico breve con eguale forza dirompente e riflessi immediati
|
Marinetti con un cuoca |
|
nell'estetica comune. Anche in quella gastronomica e conviviale? Certo che sì, ed anche se con modalità diverse, e chiavi di lettura disomogenee era possibile proporre un percorso tematico in questo senso.
Si descrive qui quest'esperienza, che certamente è stata soggettiva nell'impostazione, e che pertanto qualcuno tra i lettori avrebbe impostato in maniera diversa (ed anzi è aperto l'invito a chi vuole reinventare questa proposta tematica con menù diversamente ristrutturati, con altri artisti, citazioni d'opere e chiavi di lettura).
Questa cena voleva scandirsi portata dopo portata in un progressivo svolgersi parallelo a quello dell'arte, movimento dopo movimento: pertanto il primo piatto avrebbe contraddistinto l'impressionismo ed al dolce conclusivo sarebbe invece toccato di rappresentare il futurismo. Ogni pietanza avrebbe potuto raccontare in sé la memoria degli artisti ma anche quelle della gente comune, congiungendo possibilmente le analogie con l'estetica dominante e le convenzioni gastronomiche del periodo storico corrispondente.
Toccando pertanto l'apertura all'impressionismo iconograficamente venivano subito in mente i diversi pranzi raffigurati in atelier o en plein air e le nature morte, dove figuravano spesso diverse zuppiere, tra l'altro perfetto saggio di resa pittorica "sensoriale" (tra il lucore della porcellana e gli indefiniti tocchi cromatici dei decori): ebbene una curiosa zuppa si trova anche nelle pieghe biografiche della quotidianità risicata di quei portentosi artisti, ora aurei best seller nelle mostre internazionali ma all'epoca spesso asceti o digiunatori, e non certo per vocazione.
Le memorie di Gauguin sui giorni trascorsi con Van Gogh indugiano su una "Zuppa di zucca" preparata dall'olandese, in genere "cuoco meraviglioso", ma non per quella minestra vegetale: "Come l'ha miscelata non so, oserei dire come i colori nei suoi quadri". Accanto alla pietanza brodosa ispirata da un artista europeo sta benissimo una citazione letteraria legata allo stesso periodo ma in Italia, per far capire una certa nostra atavica resistenza alle usanze gastronomiche transalpine, non sempre accettate in maniera indolore come nuovi codici conviviali. Già il concetto stesso di Italia era un'incognita per la Sicilia di fine Ottocento de "Il Gattopardo", figuriamoci intromissioni ulteriori, e per giunta culinarie: come scrive infatti Tomasi di Lampedusa nel suo romanzo capolavoro "il principe aveva fin troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani, in un paese dell'interno un pranzo che iniziasse con un potage".
Chiusa la doverosa ed intrigante parentesi di confronto italiana con il pasticcio memore di gastronomie arcaiche e barocche (simbolo di una cocciuta fedeltà all'ancient régime non solo estetica e culinaria) si torna con il secondo piatto alla Parigi dei tardi impressionisti. Toulouse-Lautrec, gourmet e autore di un ricettario, sintetizzava le sue due grandi passioni per le arti della mensa e della pittura disegnando i menù delle sue cene esclusive e bizzarramente fantasiose. Si divertiva a girovagare per bistrot e ristoranti a Parigi alla ricerca di piatti tradizionali e ricette inusuali. La sua casseruola di piccioni con le olive l'aveva scovata in una pasticceria e tavola calda in rue de Bourgogne. Per il contorno ed il piatto successivo siamo già in piena atmosfera cubista: l'ossessiva ricerca di una quarta dimensione (che raccogliesse ed al tempo stesso annullasse le altre tre) inesorabilmente si sarebbe spostata dalle sperimentazioni visive su ortaggi e fruttiere a innovazioni autentiche anche nella cucina vera e propria: Apollinaire scrisse appunto di "cubismo culinario" che avrebbe scardinato vecchie sclerotizzazioni gastronomiche appunto con la stessa forza dell'arte di Picasso e Braque nel rivoluzionare la pittura antica. Da uno di questi menù riportati dal poeta francese sono stati serviti l'insalata con olio di noci ed acquavite invecchiata ed il formaggio reblochon cosparso di noce moscata. Giunti al dolce si è proposto un altro confronto dualistico di contrasti tra sapori ed estetica: quando l'Art Nouveau arrivò in Italia assunse la denominazione di Liberty dal nome della ditta inglese che smerciava accessori contrassegnati da questo nuovo stile elegante e coltamente sincretico.
Scatola di biscotti
Questo immaginario elegante e lezioso sinuosamente entrò in molti aspetti della quotidianità cittadina, tra cui gli arredi di caffè e pasticcerie, ed il design per le scatole di latta (decorate in cromolitografia con la moderna tecnica offset) di cioccolata e biscotti di produzione ormai industriale. Dolci al cucchiaio squisitamente Liberty sono omelettes, soufflés, biancomangiare, mousses: esemplare in questa cena tra le arti il "budino di noci" che lo chef Mariano Faraoni ha servito decorato con salse multicolori a specchio, secondo un gusto fiorito che suggeriva le vetrate istoriate d'epoca.
Poco dopo in brutale opposizione è stato servito come dessert alternativo il "Dolcelastico", una delle tante provocazioni commestibili della (non) premiata ditta Marinetti e Fillìa: l'ineffabile bigné farcito di zabaione rosso (con stecca di liquirizia dentro e prugna secca sopra) è stato servito, tra la perplessità generale, con abbondanti spruzzate nell'aria di aromi di vaniglia e gelsomino, secondo totale osservanza delle invenzioni conviviali futuriste. Un compromesso conclusivo tra i due stili è stato officiato al momento del congedo, quando accanto al caffè sono girate bottiglie d'epoca di cristallo smerigliato e fiammeggiante, piene di liquore di zabaione.
Nella loro irta ma fantasiosa linea Art Decò hanno non solo visualizzato uno stile ma anche riportato la memoria alle confezioni di cordiale custodite nei mobiletti bar dei salotti anni '30: dinamicamente moderne, ma guardingamente non sovversive, e comunque di indiscutibile eleganza, sicuramente come potevano essere le nostre nonne e zie.
|