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Shakespeare e il cibo
Trippe di tigre per Macbeth
di Marinella Rocca Longo

Feuerbach ha detto "noi siamo quello che mangiamo". Magari non sarà proprio esattamente così, ma è certamente vero che esiste una forte relazione tra il cibo e la civiltà, tra il cibo e la cultura, tra il cibo e la storia. Shakespeare E la cucina, oltre ad adattarsi, ovviamente, al clima e ai prodotti di una terra, racconta, allo stesso modo delle vestigia del passato, le vicende dei popoli. Prendiamo i più tipici piatti della cucina romana tradizionale, per esempio. Per tutta la loro storia, i romani hanno convissuto con il potere di una classe dominante di straordinaria opulenza, un' opulenza mostrata senza ritegno e fatta di banchetti sontuosi sui quali si sono consumate, tra cibi e bevande di ogni genere, le carni di intere mandrie di animali. Al popolo veniva concesso, spesso gettandolo dalle finestre dei palazzi nobiliari, ciò che restava delle carcasse. E così, la migliore cucina popolare romana ha piatti che traggono il meglio da questi resti e frattaglie: code, animelle, rigaglie, trippa, testina, rognoni, fegato, stinchi e zampetti vengono manipolati dal cuoco romano in modo da trarre sapori squisiti da materiali di scarto, e oggi sono alla base di costosissimi menù nei ristoranti "tipici" più "à la mode". Il cibo perciò racconta la storia dei popoli, ed è dunque naturale che rappresenti anche un ingrediente importante delle letterature che i popoli producono. Ovviamente, le diverse coordinate spazio-temporali incidono profondamente sul significato che il cibo assume di volta in volta nelle opere della fantasia dell'uomo, ma rimane inalterato il potere evocativo che esso assume nella coscienza e nella memoria, come dimostrano le "madeleines" proustiane. Luca Doninelli, narratore e uomo di teatro, così sintetizza il significato del cibo nel contesto letterario occidentale: "Nel mondo protestante i personaggi letterari bevono, nella cultura cattolica mangiano. Il mangiare, infatti, soprattutto se declinato nella situazione conviviale, è una metafora dell'Eucaristia. Si tratta di un richiamo implicito, spesso involontario, legato alla tradizione in cui chi scrive è inserito. Dal gusto siamo richiamati ad un altro gusto, che è il significato ultimo. Per mangiare con noi, Dio è morto in Croce, dunque anche il mangiare assume un significato. Quello del cibo non può essere un tema fine a se stesso: si descrive l'atto del mangiare, in letteratura, perché in ultima istanza c'è di mezzo Dio, altrimenti è pura golosità". Nella letteratura inglese scorrono fiumi di vino e di birra, ma anche l'elemento della ghiottoneria culinaria è molto presente. La storia coloniale e commerciale dell'Inghilterra vede nel 16° e 17° secolo l'arrivo massiccio di nuovi cibi da tutte le parti del mondo. Tè, cioccolato, patate e il saporito e indispensabile ananas contribuirono a raffinare i palati degli inglesi fin quasi a saturarli, e i resoconti dei banchetti dell'epoca elencano dozzine di portate con i nomi e gli ingredienti più disparati che si sovrappongono alla materia prima tradizionale: il frutto della caccia di ogni genere di animale selvatico, compresi il cigno e il riccio. A questo si univano i prodotti di una terra ricca di verdure, radici, erbe aromatiche, frutti di bosco e granaglie e sementi da cui trarre farine per cucinare diversi tipi di pagnotte e dolci. Ma più dell'interesse per tutto ciò che di commestibile si poteva mettere in tavola, la letteratura inglese di quel periodo svela uno straordinario amore per le bevande alcoliche e per la birra. Anche questo ha una ragione storica, al di là dell'abbondanza di malto. L'acqua era considerata una bevanda pericolosa dal punto di vista sanitario, e questo era particolarmente vero nella città di Londra, dove l'igiene delle acque era assai precaria. Perciò la birra era l'unica bevanda per tutti, a tutte le ore del giorno: uomini, donne e bambini, dalla colazione alla cena abbracciavano con convinzione e senza possibili alternative il loro destino di ubriachi cronici dal ventre gonfio. Il vino, "nettare degli dei", proveniente da terre più calde ed esotiche, era riservato ai ricchi e scorreva a fiumi nelle Corti e nei palazzi dei Baroni, spesso descritto come veicolo metaforico, e spesso anche reale, di avvelenamenti e delitti.

Nei drammi di Shakespeare, cibi e bevande accompagnano i temi e le vicende dei testi, in maniera direttamente referenziale oppure come riferimenti di costume e allusioni simboliche. Così il personaggio malvagio viene spesso definito "rotten apple" (mela marcia), mentre la "human kindness" (l'umana gentilezza) viene rappresentata attraverso il latte, e la ferocia omicida trova nel vino rosso la rappresentazione più esplicita del sangue che scorre. Ma è la birra che scorre a fiumi nelle taverne e Shakespeare disegna alcuni dei suoi personaggi più cari al pubblico, ricalcandoli sui bevitori dalla sete inestinguibile che sedevano per ore nelle taverne con la pinta di birra in mano, con gli occhi stretti e il ventre largo ingurgitando ettolitri. Sir John Falstaff dell'Henry IV è il re di questi "ale knights", e Sir Toby Belch (rutto) di "Twelfth Night" in ogni sua azione sembra non voglia far altro che confermare il proprio nome. Ma il dramma in cui cibo e bevande sembrano fare la parte del leone, in Shakespeare, è il Macbeth, dove il vino, come ho già detto, è metafora del sangue che scorre, ma serve anche come veicolo per la droga che addormenta le guardie del re prima del suo assassinio. Il brindisi, al banchetto del III atto, è il segnale involontario per l'apparizione dello spettro di Banquo. Il vino, poi, dice il Portiere nel suo memorabile intermezzo comico, provoca tre cose: "naso rosso, tanto sonno e l'urina ; in quanto alla libidine, la crea e la distrugge, la provoca e ne impedisce l'esecuzione, la fa rizzare sù e poi la tira giù…". Il cibo, nel Macbeth, è anche un modo per descrivere quanto i valori umani possano venire alterati: il latte della madre può diventare fiele e animali erbivori come i cavalli possono impazzire divorandosi tra loro (forse Shakespeare prevedeva le "mucche pazze" del futuro?). Ma l'apoteosi "culinaria" si raggiunge con il calderone delle streghe: una ricetta infernale fatta di rospi, serpenti, ramarri, vampiri, dente di lupo, lingua di cane, zampe e ali di ramarri e civette, fegato di ebreo, naso di turco e labbra di tartaro, e dita di neonato soffocato partorito da una bagascia in un fossato. La ricetta va completata con trippe di tigre e raffreddata con sangue di babbuino per raggiungere la giusta consistenza e mostrare tutto ciò che "bolle in pentola": il rovesciamento dei valori che viene rappresentato attraverso un totale e significativo rovesciamento del gusto. Se "nell'atto del mangiare, in letteratura, c'è di mezzo Dio", questa ricetta mostra che Dio, in questa fase del Macbeth, è stato decisamente tolto di mezzo.

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