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La pagina di Piero Meldini
Tracce di storia della piada
di Piero Meldini

Da: Graziano Pozzetto. La piadina romagnola tradizionale, Rimini, Panozzo, 2005

Contrariamente a quello che pensa la stragrande maggioranza dei Romagnoli, che in fatto di cucina sono fierissimi campanilisti, la piada non è un cibo unico al mondo. piadina romagnolaFa parte, al contrario, di una vasta famiglia di schiacciate di cereali macinati, impastati con acqua e cotti senza lievito su lastre di pietra, testi di terracotta o piastre di metallo. Numerose consorelle della piada, e in qualche caso vere e proprie gemelle, sono diffuse sia in area mediterranea (dalla Sardegna alla Tunisia, da Israele al Libano, dalla Grecia alla Turchia, ecc. ecc.) sia altrove, senza distinzione fra culture indoeuropee, semitiche e dell'Africa nera. In quanto pani azzimi, cioè non lievitati, queste schiacciate rimandano, come tipologia, a un periodo storico anteriore all'introduzione del lievito, vale a dire al tardo Neolitico. Furono infatti gli Egizi, com'è noto, a scoprire il lievito di birra fra il 3000 e il 2500 avanti Cristo e a produrre il primo pane lievitato. Ciò non significa, beninteso, che la piada sia di origine neolitica, come riteneva ingenuamente Antonio Sassi, che la definì "la prima rozza pietanza dell'uomo".

E altresì poco probabile che la piada discenda direttamente o indirettamente dalla mensa romana, come pretendeva Giovanni Pascoli. Nel libro VII dell'Eneide, ai vv. 107-115, viene citata quella focaccia di cereali che i patrizi dell'età repubblicana usavano come piatto e che poi, impregnata degli umori della carne arrostita, regalavano ai clientes e ai servi: la mensa, appunto. Pascoli si convinse di buon grado, in anni in cui le correnti nazionalistiche rispolveravano il mito di Roma, che la piada fosse l'erede legittima della mensa: ciò che costituiva un'ulteriore prova degli stretti legami tra Roma e la Romania, la "terra romana" per definizione. Per questo chiamò la piada, a cui dedicò un verboso poemetto-ricetta, "pane rude di Roma". Di fatto non si hanno prove né documentarie né indiziarie di un effettivo rapporto tra mensa e piada. Egualmente infondata sembra l'ipotesi che la piada sia un lascito della dominazione bizantina: ipotesi che si reggeva soprattutto su un'etimologia, oggi non più accettata, della parola piada, che secondo P.G. Goidanich sarebbe derivata dal termine greco plakotis, "focaccia", attraverso l'ipotetico lemma *platus, "piatto".

[…]

La prima citazione di un cibo chiamato "piada" risale al XIV secolo. Si trova infatti nella Descriptio Romandiole, la statistica-censimento fatta redigere a fini fiscali, nel 1371, dal cardinale Anglic Grimoard de Grisac, fratello di papa Urbano V. Alla comunità di Modigliana (Mutiliana) veniva imposto un tributo annuo alla Camera Apostolica di grano, vino, capponi (ben quattordici), galline (appena tre), una libbra di pepe e, per l'appunto, due piade.
Non è evidentemente pensabile che da una comunità di 132 focolari (621 con il contado), ossia di oltre 500 abitanti (e con un contado di quasi 2500), si esigessero, oltre agli altri onerosi balzelli, due misere piadine. Si dovrà allora ritenere che le "piade" menzionate nel ben noto documento trecentesco fossero larghe focacce lievitate, condite probabilmente con grasso di maiale e cotte nel forno: del tipo di quelle che, a seconda dei luoghi, si chiamano tuttora piè oppure "spianate" (spianèdi).

[…]

E probabile che in passato il termine "piada" (che partorirà sia "piadina" che "piadone") comprendesse, genericamente, un ampio ventaglio di schiacciate e focacce di cereali e altro: lievitate o azzime; condite o scondite; cotte nel forno, in padella, sul testo, sulla graticola o sotto la cenere; di grano o di qualsiasi altra cosa: cereali inferiori, tritello, castagne, fave, fagioli, cicerchie, veccie e, in caso di estrema necessità, ghiande, crusca e perfino segatura.

[…]

Se il termine "piada" è attestato fin dal XIV secolo, la prima citazione a me nota di una preparazione identificabile, mutatis mutandis, con la popolare piadina odierna risale a due secoli dopo. Intorno al 1572 Costanzo Felici - medico e naturalista riminese (ma nato a Casteldurante da famiglia di Piobbico), e amico e corrispondente di Ulisse Aldrovandi - scrisse un trattato in forma di lettera che è un catalogo ragionato di tutte le piante commestibili, spontanee e coltivate. Parlando del grano e dei vari tipi di pane, Felici accennò incidentalmente a "piacente e cresce o piade per il più fatte di pasta non fermentata con sale e cotte sotto le cenere infocate overo nelli testi infocati", precisò che queste venivano confezionate "per non potere aspettare il resto del pane che si cuocia o quando manca il forno" e le definì "pessimo cibo con tutto che a molti tanto piaccia".

[…]

piadina romagnolaPer rinvenire una nuova citazione della piada bisogna aspettare altri cinquant'anni. Nell'inedita cronaca seicentesca compilata alla brava dal sacerdote santarcangiolese Giacomo Antonio Pedroni, canonico della cattedrale di Rimini, alla data dei 12 marzo 1622, dopo alcune sconsolate annotazioni sulla carestia che allora imperversava e sui micidiale rincaro dei prezzi dei generi alimentari, si legge che "più persone facevano delle piadine di sarmenti et fave macinati insieme per mangiarle in così gran bisogno". All'uso alimentare dei "sarmenti", cioè dei tralci di vite, accennava Felici nella ricordata lettera Del'insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo del'homo: "E non solo questa vite dà il suo frutto Il...], ma ancora Il...] il suo tenero getto e crudo e cotto, e similmente gli suoi teneri capreoli e riccioli e crudi e cotti". Con "i sarmenti e i canepugli" (N. Rimbocchi) era alimentata anche la fiamma che ardeva sotto il testo.

A differenza della piada menzionata nella Descriptio Romandiole, quelle di cui parlano Costanzo Felici e Giacomo Antonio Pedroni (queste ultime confezionate con ingredienti d'emergenza), saranno state morfologicamente affini alle attuali. Va ulteriormente notato che il termine "piadina" non è un lezioso diminutivo di conio recente - come molti credono e come anch'io ero portato a supporre -, ma è già attestato nella prima metà del XVII secolo.
Un cronista ottocentesco, il bottegaio e maestro di canto riminese Filippo Giangi, usa invece nel 1832 il rafforzativo "piadone" (da lui definito, sdegnosamente, una "specie d'ordinarissima, cattiva focaccia"), là dove ci informa che i popolani riminesi erano soliti consumarlo nelle scampagnate di Ferragosto al colle di Covignano. L'impressione, però, èche qui si alluda alla spianata. E curiosa, inoltre, una notizia del 1824 tramandata anch'essa da Giangi: una ragazza di diciotto anni, tale Adelaide Bazzini, sarebbe morta per un'indigestione di uova sode e piadine: ma si trattava di laute piadine fritte. Il solo punto in cui nella ponderosa e minuziosissima cronaca di Nicola e Filippo Giangi si nomina la piada Cotta sul testo è un episodio degno del film I soliti ignoti: il 6 settembre 1839, introdottisi nottetempo in casa di un contadino "detto Quadrellino", sei ladruncoli, non trovando niente da infilare in saccoccia, "mangiarono della piadina e bevettero".
Tolte queste tre citazioni in croce (più una quarta da Michele Rosa …), nessun'altra fonte a stampa o manoscritta compresa fra il 1500 e il 1850 menziona la piada.

L'estrema penuria di fonti storico-documentarie lascia intendere che, fino a poco più di un secolo fa, la piada, pur esistendo, aveva un peso assai modesto nell'alimentazione dei Romagnoli, e assolutamente trascurabile nel loro immaginario. Nei contratti e negli inventari dei secoli XIV-XVI - quelli visti da me e quelli, ben più numerosi, compulsati da amici che negli archivi sono di casa - la piada non è mai menzionata. Sono talvolta ricordate delle focatie (cioè, verosimilmente, delle "spianate") e, ben più spesso, il pane. La presenza del forno anche nelle case più umili, in città come in campagna, è una conferma della centralità del pane, circondato, non per caso, da un'aura di sacralità sempre negata alla piada.
La piada, in conclusione, altro non era che un succedaneo del pane a cui si ricorreva in due circostanze: tra un'infornata settimanale del pane e l'altra, come annotava Felici; e soprattutto quando, in mancanza di farina di frumento, si era costretti a utilizzare ingredienti inadatti alla panificazione: cereali inferiori (spelta, miglio, sorgo, segale, orzo), fave, fagioli, cicerchie, veccie, castagne, ghiande, crusca e peggio.

[…]

Nel secondo dopoguerra [del '900, ndr], grazie alle migliorate condizioni di vita, la piada di o con farina di frumentone si estinguerà rapidamente. Sopravviverà, e anzi si espanderà fino a dilagare, la buona piada di pretto frumento sia nelle campagne che nelle città, e non sarà più considerata un surrogato del pane, ma una golosa alternativa. Ne crescerà, parallelamente, anche il mito: già nel 1946 De Nardis celebrerà la piada come "l'ostia d'oro che profuma come il corpo del Signore". Al mito si accompagnerà la precoce commercializzazione: nell'aprile del 1959, a San Martino in Strada, frazione di Forlì, nascerà la "piadina romagnola di Loriana" (dal nome di battesimo della gentile imprenditrice), che sarà la capostipite di una sterminata progenie di piade di produzione artigianale e industriale.

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