Andiamo in cucina, in tutti i sensi…
La cucina della conoscenza
di Giovanni Solimine*
(da Guido Pensato - Saverio Russo. Carte in tavola. Alimentazione e cucina in Capitanata. Materiali. Presentazione di Massimo Montanari. Foggia, Banca del Monte di Foggia- Claudio Grenzi editore, 2005, p. 14-15)
Immagino che il motivo per il quale i curatori del volume che abbiamo tra le mani mi hanno chiesto di scrivere qualcosa per introdurne la lettura non sia legato a mie presunte competenze - che non ho, se non… da utente - nel campo della gastronomia, ma al fatto che mi occupo professionalmente di libri e biblioteche e forse anche ai miei dati anagrafici: infatti, sono nato in Irpinia, a metà strada tra Napoli e Foggia - in quell'area geografica "meticcia", amministrativamente divisa tra Campania, Puglia e Basilicata, che ha sempre avuto Napoli come riferimento, ma che orgogliosamente non si à mai lasciata assimilare più di tanto alla civiltà e ai costumi partenopei, rifiutando di farsi relegare ad una funzione meramente ancillare - e ciò mi aiuta a comprendere lo spirito che anima queste pagine, in cui viene messa a fuoco molto bene l'identità culturale di quella "terra di mezzo" che è la Capitanata, che non si accontenta del ruolo di "granaio" del Regno. Non è questa la sede per riprendere gli spunti offerti dal dibattito sulle zone interne del Mezzogiorno e sul loro rapporto con le culture egemoni, cui la letteratura meridionalistica ha dedicato tanta attenzione, ma restando al nostro specifico va ricordato, come fanno Guido Pensato e Saverio Russo, che spesso Napoli finiva per oscurare anche per quanto riguarda le produzioni agricole e gli alimenti le peculiarità delle province, cui non rimaneva nessuna "visibilità documentale".
E così ho già indicato uno dei caratteri originali del volume, che finalmente scava tra le carte e assicura dignità documentaria anche alla "cucina bassa" della provincia.
Ma non è questo il solo elemento di novità che ci viene offerto dagli autori dei diversi interventi che il volume raccoglie.
Essi affrontano in modo non convenzionale i temi delle tradizioni gastronomiche: il costante riferimento ai documenti riesce a dar conto della dimensione storico-culturale dei fenomeni analizzati, e la gamma vasta e diversificata delle fonti utilizzate - da quelle archivistiche e bibliografiche, a quelle orali e iconografiche, fino a quelle rintracciabili nella musica popolare e in altre sedi che potremmo definire "inconsapevoli" o "involontarie" - dimostra quanto siano profonde, significative e ramificate le radici di questi fenomeni.
Credo di non esagerare affermando che questo libro assolve in maniera esemplare ad una funzione di documentazione della storia e della cultura locali. È questo un tema di grande interesse per il dibattito biblioteconomico. Tra coloro che hanno contribuito a questo volume ritroviamo anche l'autore che più di ogni altro in Italia ha portato alla luce la funzione "localmente universale" della biblioteca pubblica, esaltando i compiti di organizzazione della memoria collettiva di una comunità che essa può esercitare quando sa correttamente raccogliere, conservare e mediare i documenti in cui questa memoria si concretizza1. Questo libro ci offre tanti spunti per immaginare cosa le biblioteche e gli archivi potrebbero fare per valorizzare quel "materiale minore" che spesso è la sola fonte superstite della storia locale: penso, per citare solo un esempio, ai quaderni di ricette conservati presso le famiglie del ceto borghese, testimonianza delle tradizioni gastronomiche locali, ma anche delle relazioni col mondo esterno agli ambienti provinciali che tenevano vive e spesso innovavano queste tradizioni.
Giuseppe De Nittis, Pranzo a Posillipo
Milano, Galleria d'Arte Moderna, coll. Grassi
Il combinato disposto dei due elementi che finora ho cercato di evidenziare - vale a dire, il tentativo di dare rilievo ad uno degli aspetti più autentici di una "cultura subalterna" ed il fatto di fondare questo tentativo su solide basi documentarie - consente il realizzarsi di quelle condizioni per le quali diviene possibile il superamento di un localismo deteriore. Come hanno sostenuto in altra sede molto autorevolmente Alberto Capatti e Massimo Montanari, "il prodotto esclusivamente "locale" è privo di una identità geografica in quanto essa nasce dalla sua "delocalizzazione". […] Le olive "all'ascolana" assumono questa denominazione solo quando oltrepassano i confini della città natale"2. In varie parti del volume troviamo pretesti per riflettere su questi aspetti: mi riferisco alle pagine in cui si parla dell'invenzione di una tradizione e della tutela di produzioni particolari, ma anche a quelle dedicate alla gastronomia interculturale che scaturisce dalla contaminazione fra etnie diverse per effetto dei fenomeni migratori.
Anche su questo terreno la responsabilità delle biblioteche e degli archivi è enorme, sia per quanto riguarda la necessità di mantenere vitale il risultato della naturale stratificazione documentaria che avviene sui loro scaffali, senza mummificare come semplici cimeli ciò che entra a far parte delle raccolte di storia locale, sia per la capacità che questi istituti debbono mostrare nel dare organicità e coerenza a queste raccolte, facendole diventare un fattore identitario per la comunità che quei documenti ha prodotto e che in quei documenti può riconoscersi. Si tratta di saper costruire e gestire con continuità servizi ed eventi che favoriscano l'appropriazione critica e l'elaborazione consapevole di una varietà di dati e di informazioni che nel loro insieme costituiscono le componenti della cultura di un insieme di cittadini, se proprio non vogliamo usare espressioni più solenni e parlare della cultura di un popolo.
Per concludere, possiamo riprendere la metafora del "crudo" e del "cotto", che in questo caso mi sembra quanto mai appropriata, usata da Claude Lévi-Strauss per rappresentare la contrapposizione tra natura e cultura3, e possiamo dire che uno dei compiti principali dalle strutture e dai servizi che si occupano di organizzare il sapere, è quello di trasformare l'informazione in conoscenza: come già ha sostenuto Peter Burke, quando ha assimilato il termine "informazione" a quanto è immediato e pratico, e quindi crudo, sostenendo invece che la "conoscenza" denota ciò che è stato cotto, elaborato, sistematizzato dal pensiero4.
Andiamo in cucina, dunque, in tutti i sensi.
* Docente di Bibliografia e Biblioteconomia, Università degli studi della Tuscia, Viterbo.
1 Mi riferisco a Rino Pensato, autore di Le fonti locali in biblioteca (in collaborazione con Valerio Montanari, Milano 1984) e di La raccolta locale (Milano 2000). A p. 2 di quest'ultimo si legge: "a livello di principi si assiste all'affermazione del modello della biblioteca pubblica "localmente universale", come l'unico possibile per affrontare con qualche probabilità di successo il dilemma "localismo vs. globalizzazione". Mi sia consentito di ricordare anche che, riprendendo questi concetti, ho parlato della funzione "glocale" della biblioteca all'interno delle dinamiche di produzione e trasmissione del sapere nel mio volume La biblioteca: scenari, culture, pratiche di servizio, Roma-Bari 2004.
2 Alberto Capatti - Massimo Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari 1999, p. IX.
3 Cfr. Claude Lévi-Strauss, Mitologica: il crudo e il cotto, Milano 1966.
4 Peter Burke, Storia sociale della conoscenza. Da Gutenberg a Diderot, Bologna 2002.
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