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IL cibo ne "I promessi sposi"
Una fame senza fine
di Michele Simoni

Se la fame si potesse mangiare i promessi sposi di Manzoni avrebbero avuto un "cuccagneso" banchetto per i festeggiamenti del loro agognato matrimonio. Non ce ne voglia il marchese, chiamato a sostituire il defunto Don Rodrigo, che, con gran festa e facendo anche da valente servitore offre ai novelli sposi un pur dignitosissimo pranzo pacificatore nel gran tinello dei servitori dove, con buona pace di tutti, si ristabiliscono le gerarchie sociali e culinarie.
Ma poiché di fame non si campa, ma si muore, il cibo viene inseguito per tutto il romanzo in una varietà di modi e di situazioni che però non travalicano mai l'equilibrata struttura della pagina manzoniana.
Quello della fame è un tema che il Manzoni rinnova trattandolo alla luce di una prospettiva inedita per la letteratura romanzesca precedente. Meglio: lo scrittore milanese adotta l'argomento conferendogli una serietà e una dignità fino allora sconosciute. Per la prima volta la fame è denunciata come un problema da affrontare e risolvere per la comunità umana che vive tra le pagine del romanzo. Viene ribaltato il concetto di fame tipico della commedia dell'arte1, dove compariva come caratteristica peculiare (ma dai risvolti comici) dei poveri, degli sfortunati, dei villani2: idea che emerge anche dalle parole dei nobili della Lombardia seicentesca durante il pranzo al palazzotto di Don Rodrigo (cap. 5) dove, unica voce fuori dal coro è quella di frate Cristoforo, non a caso personaggio interclassista per eccellenza del romanzo, quindi testimone consapevole sia della visione distorta della realtà pronunciata dai signori che delle vere condizioni dei bisognosi.


La fame è la spina dorsale del romanzo manzoniano: assieme alla provvidenza è l'elemento fondamentale del paesaggio realistico (percorso da un profondo e criticamente meditato afflato cristiano) che Manzoni disegna attorno ai personaggi. Il segno culinario, presenza speculare e contraria alla fame, è lo strumento con cui l'artista cerca di imbastire un progetto di realismo micro e macro storico intriso di una meditata e sofferta visione religiosa ed etica. La carestia, manifestazione più dolorosa della fame, viene avvertita da Manzoni sia sotto l'aspetto economico che sotto quello morale. L'aspetto economico pone un problema puramente strumentale, fa questione di mezzi, di amministrazione: ricchezza e povertà rimangono meri termini di una tecnica. L'aspetto morale solleva invece un problema che colpisce duramente la persona umana, tocca la questione vitale della fame: e la fame incide a sua volta sulla vita intima dell'uomo, ne scatena le passioni3.
Nelle pagine sulla carestia milanese (capp. 12 e 28) la storia indossa i colori della tragedia: il dramma della mancanza di cibo accompagna la sciagurata condotta degli uomini che, chi per il comportamento irrazionale ("l'immensa moltitudine d'uomini (…) che passa sulla terra (…) inosservata, senza lasciarci traccia"4), chi per l'incuranza nell'assolvere al proprio ruolo pubblico (cioè i nobili indegni gestori della cosa pubblica), non sanno organizzarsi per ovviare al meglio alle sciagure. Il misero raccolto del 1628, i provvedimenti del gran cancelliere Antonio Ferrer (che fissa la tariffa del pane ad un prezzo troppo basso per le reali possibilità del mercato), i forni assediati e i fornai costretti a lavorare ininterrottamente, il successivo rincaro del prezzo del pane fatto dalla giunta milanese e i nuovi assalti del popolo inferocito che distrugge e saccheggia il forno delle Grucce: questo è il sugo della storia della fame dei milanesi. Una storia che assume connotati sempre più tetri quando l'avidità spinge alcuni ad ammassare senza risparmio la farina nelle casse, nelle botti, nelle caldaie, quando gli amministratori tentano invano di obbligare il popolo a nutrirsi con improbabili pani di mistura fatti con il riso e in modo ancor più straziante quando per le strade si incontravano cadaveri con le bocche piene d'erba masticata, ultimo squallido pasto prima della morte. Attraverso un maestoso affresco condito di particolari crudi e squisitamente precisi, Manzoni racconta l'agonia di un'umanità a cui è venuta a mancare la materia prima della vita: per questo motivo la situazione si presta ad immaginare improbabili ricettari con portate a base di fame, accompagnata da pani di riso (impastato forse con un po' d'orzo, di segale e di veccia), da indigeste erbe di prato e cortecce d'albero (condite con un po' di sale), da acqua di pessima qualità (cap. 28). Nei capitoli 12 e 28 Manzoni rende la fame, che si manifesta duramente attraverso la carestia, protagonista della vicenda, elemento che diventa storia dei personaggi e allo stesso tempo permette loro di entrare nella storia del secolo.

Manzoni sente che il problema economico della carestia è un problema umano, realtà storica viva: la fame, che qui si manifesta con tutta la sua potenza distruttrice, è un fattore costitutivo della storia narrata, è un "personaggio" importante per tutto il romanzo5. La carestia, estrema manifestazione della fame, non viene mai dimenticata dall'autore che fin dal secondo capitolo la mette in primo piano: infatti, caratterizzando il personaggio di Renzo, viene detto che "da quando aveva messo gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame". Alla carestia si richiamano poi gli episodi di frate Galdino che nel capitolo terzo percorre le strade del paese per raccogliere l'elemosina delle noci; è presente sui volti dei contadini che fra Cristoforo incrocia per strada nel capitolo 4; appare, come già detto, nelle vane parole dei convitati alla tavola di Don Rodrigo prima dello scontro tra questo e padre Cristoforo (cap. 5); è implicitamente protagonista nella scena della cena a casa della famiglia di Tonio (cap. 6); viene citata mentre, nel capitolo 9, Renzo, Lucia, Agnese e il conducente si fermano in un'osteria dove fanno "colazione, come permetteva la penuria de' tempi (…) A tutt'è tre passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, s'aspettavan di fare". La frequenza con cui la nota della carestia si fa sentire, ritornando insistentemente in margine ad ogni episodio, ne denuncia il valore intimamente costruttivo rispetto alla vicenda del romanzo.


1 BIASIN G.P., I sapori della modernità. Cibo e romanzo, Bologna 1991, p. 29.
2 "Un variegato mondo di straccioni" da CAMPORESI P., Il paese della fame, Bologna 1985 (ed. I: 1978).
3 GETTO G., Letture manzoniane, Bologna 1992, pp. 206-207.
4 CESERANI R. e DE FEDERICIS L., Il materiale e l'immaginario. Laboratorio di analisi dei testi e di lavoro critico, vol. 7, Torino, 1981, p. 928. Gli autori citano da MANZONI A., Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, in Tutte le opere, II, a cura e con introduzione di MARTELLI M., Firenze 1973, pp. 2000-2001.
5 GETTO, cit., pp. 204-205.

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