L’opinione di Massimo Montanari
Il piacere onesto e la buona salute
di Massimo Montanari
A proposito di anniversari
Il trattato di cui tratta questo brano di Montanari dal suo Convivio, ben noto ai lettori di MenSA, fu con ogni probabilità stampato per la prima volta a Roma, senza indicazioni di autore e note tipografiche nel 1474, ma fu con certezza pubblicato a Venezia l'anno dopo con le indicazioni mancanti nella prima edizione romana. Diciamo allora che, almeno per completezza di dati bibliografici e tipografici- e qualità dell'edizione - l'edizione veneziana del Platina ci consente di festeggiare i 530 anni di storia del libro a stampa della gastronomia italiana. Ci piace che sia così, perché la cosa coincide con la costituzione, all'interno dell'Associazione italiana biblioteche del gruppo di interesse Bibliotecari Gourmand, coordinato dall'estensore di questa nota, che vorremmo intitolare a Olindo Guerrini, poeta, bibliotecario e gourmet e che potrebbe peraltro, seguendo una direzione (ancor) più erudita e "nobile", essere intitolato al Platina, primo Conservatore della Biblioteca Vaticana.
(Rino Pensato)
La nozione classica di "regime", di una regola di vita che nasce dalla conoscenza profonda del proprio corpo e della propria individualità, alla ricerca dì un equilibrio fra desiderio e saggezza, piacere e salute; la nozione insomma di misura, ostinatamente sopravvissuta nel Medioevo all'imperare di ideologie e di atteggiamenti mentali fondati su opposte e contrapposte nozioni di eccesso (la privazione del cibo come segno della santità; l'abbondanza del cibo come segno del potere); questa nozione classica, custodita e tramandata per oltre un millennio da una parte della cultura scientifica e, anche, da una parte della cultura religiosa, torna ad esplodere come valore trainante nel secolo dell'umanesimo, che ad alta voce lo ripropone come fondamento del suo progetto di recupero della "classicità", intesa - oltre l'interesse filologico - come modo di concepire l'esistenza. Un illustre esempio è il trattato De honesta voluptate et valetudine (Il piacere onesto e la buona salute) di Bartolomeo Sacchi detto il Platina (1421-1481), vera summa del sapere gastronomico del secondo Quattrocento, pubblicato la prima volta forse a Roma nel 1474, dove l'arte culinaria, la dietetica, l'igiene alimentare, l'etica dell'alimentazione e dei piaceri della tavola sono oggetto di trattazione sistematica. "Non mancheranno - scrive il Platina nella lettera dedicatoria al cardinale Bartolomeo Roverella - dei malevoli - i quali mi staranno addosso dicendo che un uomo virtuoso e temperato non deve scrivere in materia di piacere. Ma suo intento sarà esaltare "quel piacere che nasce dalla continenza", secondo gli insegnamenti di Platone, di Pitagora, di Zenone, di Democrito, di Crisippo, di Parmenide, di Eraclito, di Epicuro. E tanto basti.
Farà un errore, e certamente non da poco, chi giudicherà sconveniente questa nostra opera - dedicata al tuo nome, magnifico padre Bartolomeo Roverella - per il fatto che essa s'intitoli al 'piacere' e alla 'salute'. Ma poiché nella tua persona, da parte mia come di tutti gli uomini dotti, sono particolarmente apprezzate la forza dell'ingegno, la rettitudine dei costumi e la co stante dignità del vivere, non meno che la vastità del sapere e dell'erudizione, ho voluto designare te, in luogo di qualsiasi altro, quale patrono e giudice di questo lavoro, nell'eventualità che vi fosse alcunché di vizioso. Non mancheranno infatti dei malevoli - ne so abbastanza - i quali mi staranno addosso dicendo che un uomo virtuoso e temperato non deve scrivere in materia di piacere. Ma dicano, di grazia, codesti stoicuzzi che marcando le sopracciglia valutano le parole non già per ciò che significano ma soltanto per il loro suono: che c'ì~ di male in quel piacere di cui si ragiona in queste mie pagine? Se è vero che del vocabolo ~piacere', come del termine 'salute', si può dare un'interpretazione ambigua, non sia mai detto che il Platina si rivolga a un uomo di specchiata virtù, quale tu sei, parlando di quel genere di piacere che gl'intemperanti e i libidinosi traggono dall'eccesso e dalla varietà dei cibi e dalla titillazione dell'amore sensuale. Parlo al contrario di quel piacere che nasce dalla continenza del vitto e di tutte le altre cose cui tende la natura umana, poiché non ho mai visto fino ad oggi nessuno così lussurioso e incontinente che non sia stato indotto a qualche piacere e che almeno una volta non si sia allontanato da ciò che aveva concupito più di quanto fosse lecito. Noi teniamo nel massimo credito l'autorità di Cicerone, il quale, non diversamente da Aristotele, trae spunto per la sua cultura e dottrina dagli insegnamenti di Platone, di Pitagora, di Zenone, di Democrito, di Crisippo, di Parmenide, di Eraclito e anche da quelli di Epicuro: con quale altro infatti avrebbe potuto procedere di pari passo se non con l'ombra di Epicuro? Quanto a me, terrò conto altresì dell'accreditata opinione di Seneca, di Lucrezio e di Laerzio, che innalzarono grandi lodi a Epicuro mostrando di stimarlo uomo virtuosissimo e ottimo. Che cosa può esservi di male, e che anzi non sia bene, nell'affermare che non è degno del saggio il lasciarsi vincere dal dolore, quando la temporanea assenza del turbamento doloroso può dar luogo a piaceri duraturi? Il piacere che nasce da azioni oneste conduce alla felicità, così come la medicina restituisce la salute all'ammalato. Chi per di più - come costoro pretendono - è tanto alieno dalla vita dei sensi per santità e severità di costumi, chi è tanto sciocco da non voler procacciare un piacere all'anima e al corpo osservando la continenza nel mangiare, dalla quale ha origine la buona salute, e mantenendosi fedele all'integrità e alla costanza nelle proprie azioni, donde consegue la felicità? La parola 'piacere' non è stata riprovata né da Platone né da Aristotele, i quali anzi ne parlarono con le opportune distinzioni. Solamente il lusso e la dissolutezza di Metrodoro e di Geronimo hanno fatto sì che alla dottrina e alla scuola di un uomo eccellente come Epicuro fosse attribuita una nomea di cor ruzione. Non dunque a quel virtuoso maestro erano da muovere accuse, ma semmai ai suoi cattivi seguaci.
Converrà poi che certi pedanti non si diano pensiero di pesare sulla bilancia i cibi che ciascuno di noi deve mangiare giorno per giorno. Sarà infatti mia cura illustrare scrupolosamente quel modo salutare di nutrirsi che i Greci chiamano dieta e definire la natura degli alimenti e delle vivande, con l'aggiunta di alcuni precetti intorno alla cura delle malattie. E del tutto falso che la materia da me impresa a trattare non si addica a un uomo civile: anche l'autorevole magistero di sommi filosofi conferma che colui che abbia salvato molti concittadini insegnando come nutrirsi razionalmente sarà considerato un benemerito della comunità non meno di colui che li abbia portati in salvo sul campo di battaglia. Vorrei che quanti mi accusano di occuparmi di cibi come se fossi un goloso e un ingordo e quasi avessi l'intenzione di aggiungere nuovi strumenti di libidine per eccitare ancor più gli intemperanti e gli scellerati, vorrei, ripeto, che costoro fossero moderati e parsimoniosi come lo è il Platina, per sua disposizione naturale e per norma di vita: oggi non vedremmo tanti frequentatori di taverne nella nostra città, tanti ghiottoni, tanti crapuloni, tanti parassiti, tanta gente che esalta i piaceri libidinosi e va cercando con zelo tante cose astruse per pura ingordigia e avidità. Ho scritto delle cose che si mangiano seguendo l'esempio di Catone, uomo di straordinaria virtù, di Varrone, sommo fra i dotti, di Columeilla e di Celio Apicio, non già per esortare i miei lettori a una vita lussuosa, ché anzi nei miei scritti mi sono sempre adoperato per distoglierli dal vizio, bensì per giovare a un uomo costumato che desideri la buona salute e un vitto rispondente al decoro piuttosto che a colui che ricerchi il superfluo; e in secondo luogo per mostrare ai posteri che questa nostra età ha avuto ingegni i quali hanno ardito, se non eguagliare gli antichi, almeno imitarli in ogni genere del dire.
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