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Osti e osterie del Po
prima parte
di Alberto Salarelli

Presso l'Archivio di Stato di Mantova si conserva una carta geografica della metà del Seicento, comprendente il tratto di Po tra Viadana e Fossa Caprara. L'ignoto autore della mappa, disegnata con tratto vivace di penna e colorata all'acquerello, si preoccupa di evidenziare gli elementi utili al viaggiatore: le strade, i traghetti, i centri abitati e, naturalmente, l'osteria.
L'"Hostaria di Cicognara" è una casetta a due piani col tetto a capanna, una piccola barchessa, il camino fumante, e l'insegna che penzola da un pennone infisso sopra l'entrata. Tutto qui. Pochi elementi ma di grande significato ed importanza per il viandante, di terra e di acqua.
Il termine 'osteria' deriva da 'oste', nome che a sua volta ci giunge, o meglio ci ritorna, dal latino 'hospite(m)', attraverso il francese 'oste, ostesse'. Non a caso la prima attestazione del termine 'hostaria' si ha nel veneziano del Duecento, come attestato dai capitolari relativi ai "Signori di Notte", magistratura che - come suggerisce il nome - si occupava in primis di garantire quieti sonni agli abitanti della Serenissima1. Le origini dei nomi, come spesso accade, rivelano piccole ed inattese storie. Piccole, ma poi neanche tanto. Nel nome c'è la funzione principale del luogo: dare ricovero al passeggero, al pellegrino, al viaggiatore, al mercante, in una parola: l'ospite. E chi più esperti dei veneziani di miglia percorse, per acqua e per terra con la speranza di poter prima o poi finalmente poggiare il culo al coperto sorseggiando un bicchiere di buon vino? Possiamo pensare che, insieme al leone di San Marco accoccolato sulla colonna davanti alla chiesa di Boretto, i veneziani abbiano portato fin nel mezzo della Pianura Padana anche l'idea della locanda con mescita, ovvero l'hostaria? Perché no? Ci piace crederlo e lo crediamo. Se si pensa che i veneziani commerciavano in vino con la Padania fin dal Medioevo2, riportando al ritorno le forme di Parmigiano, non pare troppo azzardato ritenere che il loro muoversi, il loro viaggiare, seppur per brevi tratti, sia stato accompagnato dall'allestimento di un sistema di strutture recettive che poi hanno lasciato un segno sul territorio. I veneziani - a ben vedere - di ospitalità se ne intendevano davvero: come sottolinea Costantini, "Venezia rinascimentale disponeva di un sistema di ospitalità assai evoluto, che già nel Duecento si era definitivamente staccato dai caratteri di generalità e gratuità che lo avevano acompagnato in epoca precedente"3, e in questo contesto

  le osterie, o taverne, erano stabilmente collocate al vertice del sistema. Esse rappresentavano la forma ufficialmente riconosciuta dell'ospitalità veneziana di mestiere, con la prerogativa esclusiva (che non era soltanto un diritto, ma anche un obbligo) di offrire l'intero arco dei servizi connessi all'esercizio della professione (dall'alloggio alla ristorazione).4

Orbene: la nostra osteria di Cicognara, posta all'intersezione tra la via d'acqua, il Po, e quella di terra, cioè una dalle tante stratae ad Padum, vie di collegamento fra i porti fluviali e l'interno, è l'esempio lampante dell'ideale collocazione di questo tipo di struttura, cioè sul luogo del passaggio e della sosta. La conformazione di tanti paesi e frazioni, Villastrada, Cavallara, Banzuolo, nasce e si sviluppa sul cardine stradale che diventa non solo l'asse urbanistico del paese, ma anche quello economico, concentrandosi su di esso locande, osterie, magazzini, et coetera.
L'osteria nuova - Alberto Capatti
L'osteria nuova Alberto Capatti
Un motivo, questo, ricorrente nel conformarsi dei nuclei abitati rivieraschi anche sull'altra sponda del fiume. I paesi che si affacciano sul Po altro non sono che originarie teste di ponte, o meglio, pontili di imbarco per l'attraversamento. Ed allora guarnigioni per ospitare militari e guardie di dazio, magazzini per le merci, chiesa e … osteria, naturalmente! Per una comunità rurale, autarchica, fondamentalmente chiusa in sé stessa, il fiume rappresenta un motivo di indubbio sconvolgimento: luogo dell'ignoto, dell'avventura, emblema, nella mentalità popolare della frontiera5. Ebbene l'osteria è il luogo ove questi mondi, quello rurale e quello fluviale, hanno piacevole occasione di sperimentare un contatto, con l'incoraggiamento di un bicchier di vino. All'osteria vanno gli indigeni, dopo una giornata di duro lavoro, per sfuggire talora a dimore e consorti inospitali e laggiù incontrano i viandanti, incontrano quei lavoratori senza terra e senza fissa dimora, gli avventizi. E lì è il luogo dell'informazione, del contatto con le idee che vengono dalla città, con la trasgressione e la sovversione. La diffusione delle idee anticlericali, radicali, socialiste che provanivano dalla città, trovava nella popolazione bracciantile, emarginata dalla tetragona comunità rurale, un terreno di facile sviluppo. Ed ecco le autorità preoccuparsi dell'osterie, riguardate non a torto dal loro punto di vista, come covi di briganti ma soprattutto di sovversivi: già nel 1811 il signor Garofoli, rispondendo da Viadana alle domande dell'Inchiesta Napoleonica sulle usanze del Regno Italico, lamentava "l'abuso grande della ostaria, in cui certi padri di famiglia consumano in essi giorni quanto fra la settimana è necessario al sostentamento della stessa loro famiglia"6. Ed ancor prima, sdegnosamente, così scriveva il conte D'Arco

  Generalmente si è riconosciuto che fortissimo fomite dell'infingardaggine, inerzia e corruttela nei villici sono le osterie, o per dir meglio, bettole esistenti nel territorio. Alquante potrebbero, anzi necessitarebbero, chiudersi, e massime quelle isolate lungi dai villaggi, e propinque ai confini, le quali da lunga serie d'anni sono il ricettacolo de malviventi. Generalmente in quelle, che dovessero sussistere, vorrebbero trovarsi vietati i giuochi delle carte, dadi e la morra, ed al favor di tal proibizione sarebbe facile, che s'introducessero, od a meglio dire, si moltiplicassero quelli della palla, bocchie, cugole, trucchi di terra, ed altri tali, che col trarre la gente dal tavoliere all'aria aperta giovano per l'esercizio della persona, cui chiamano.7

Anticipando di centocinquant'anni il culto fascista della forma fisica, il conte D'Arco suggerisce le bocce e il calcio per sviare l'avventore dall'azzardo del gioco da tavolo, da tavolaccio. Ma figuriamoci! Ancor oggi le osterie, tramutate in bar, sono il luogo deputato alla briscola, alla scopa e alla morra, tanto è vero che a Sissa si organizza ogni anno il campionato italiano della specialità. Ma in osteria si praticano anche altre attività di svago, una prevale su tutte: il canto.

  Al ritornare dai campi i braccianti più giovani e le donne, unendosi a frotte improvvisano canzoni che poi ripetono da soli nelle case, lungo le strade ed alla festa nelle osterie. Queste canzoni hanno uno spirito poco patetico; per lo più trattasi di proteste d'amore, di rammarichi galanti; non sono oscene, ma non sentono troppo di morale. Le arie poco o nulla armoniose non allettano punto l'orecchio di chi le intende.8

Davvero troppo spesso dimentichiamo che Giuseppe Verdi nacque in un'osteria, figlio di Carlo e di Luigia Uttini, gestori della locanda delle Roncole. Giovinezza passata tra i tavoli e il bancone, a sentir raccontar storie di girovaghi, a sentir strimpellare i violinisti ambulanti, a sentir cantare i cori che scaturiscono dai fumi del vino, "il cosiddetto vino della bassa, mistura schiumosa e spropositata che faceva bum nello stomaco, dava fuoco ai loro discorsi e aggiungeva risonanza all'umore fondo di questi odiatori del genere umano"9. Memorie indelebili che, scavando scavando, emergono nella produzione musicale del grande maestro, memorie di osteria nelle ventisette opere: il primo atto de I Masnadieri, l'osteria di Sparafucile in Rigoletto, la taverna d'Hornachuelos ne La Forza del Destino, il primo atto dell'Otello: "Innaffia l'ugola! Trinca, tracanna! Prima che svampino, canto e bicchier". E di certo non sbagliava Strehler ad ambientare il suo Falstaff in un'osteria della bassa: aveva proprio capito tuttto.

  Carlo Verdi, col suo mestiere di oste, era più povero dei contadini, che potevano contare sui frutti delle coltivazioni e degli allevamenti. Ma, al contrario di loro, disponeva di contanti, anche se rappresentavano uno stretto margine di guadagno fra i crediti verso gli avventori e i debiti verso i fornitori, non senza qualche provento illecito dal giuoco delle carte. La liquidità, anche illusoria, bastava tuttavia a rendere la sua vita differente da quella dei contadini; gli dava qualche vantaggio, pur instabile, su di loro e gli inculcava qualche aspirazione per sé e per la famiglia. 10

Una osteria del 1600 Un'osteria del '600

L'oste gode di una supremazia indiscussa, non solo per il fatto di essere il padrone di casa, il dispensatore di cibo, ma anche per una serie di attività più o meno riconosciute, più o meno lecite: nei fatti, a seconda delle necessità, l'oste assume i ruoli di prestatore di denaro, di sensale, di informatore nei confronti delle autorità o di fiancheggiatore nei confronti di contrabbandieri e faccendieri. Di conseguenza non è raro che del ruolo ci si appropri in maniera indebita, essendo magari andata buca l'assegnazione dell'appalto comunale11:

  Gli abusivi esercizj soggetti al Dazio Consumo fuori delle Città murate, e soprattutto le abusive vendite di vino, oltre il danno che recano ai legittimi esercenti, e conseguentemente alle Finanze dello Stato, offendono gravemente i Regolamenti di ordine pubblico, e rendono insufficiente la sorveglianza delle Autorità Politiche a tutela del ben essere delle popolazioni.12

Siamo abituati a collegare l'idea di osteria unicamente alla sala del ritrovo, della mescita. Naturale: mi ricordo bene mio nonno quando diceva "vado in casa" anche se in casa c'era già, volendo intendere con questa espressione che andava "in cucina", ovvero il centro della casa, dunque il luogo che fà la casa. Allo stesso modo senza la sala, con i tavoli e il bancone, non c'è l'osteria.
Fra le esalazioni dei toscani di chi siede ai tavoli e i camini a cattivo tiraggio, l'atmosfera è talmente impregnata di fumo da poterla quasi toccare, respirare, masticare, proprio come certe nebbie della pianura fuori porta. E poi l'unto: un oste di Po che sta, o forse stava, a Busseto mi raccontava, nella mezz'ora necessaria a far saltare il collo ad una bottiglia (operazione talmente elaborata da divenire quasi esasperante al punto che poi il vino risultava buono più che per qualità intrinseche per la necessità di porre a termine questo supplizio di Tantalo) che le tavole della sua taverna venivano lustrate con la sugna di maiale.

Acquisivano così una sorta di impermeabilizzazione che le rendeva, diceva lui, facili da pulire e durevoli nel tempo. E le carte da gioco: talmente lercie da ditate o da improvvide cadute nelle scodelle del rosso di Viadana, da poterle usare se strofinate, all'occorrenza, per imburrare le fette di pane o di polenta. Unto e fumo, insieme all'olezzo dei corpi e del vino "si attaccavano al legno e diffondevano nell'aria la caratteristica spüsa de ustaria13", aroma impossibile da descrivere, oggi pressoché scomparso dalle asettiche taverne nostrane, da ricercarsi dunque, come rarità da amatori, in certe 'bodeghe' dell'America latina. La sala principale è il luogo del focolare, è il luogo ove - insieme - si mangia, si beve, si discute, si canta: attività che creano o rafforzano precise identità e ruoli. Quello dell'oste, come si diceva. L'oste serve dietro il bancone, rialzato rispetto all'avventore che si ritrova nella stessa condizione dell'imputato nei confronti del giudice, o del fedele nei confronti del prete. L'autorità dell'oste si estende oltre i confini della sala: l'osteria infatti è una struttura decisamente complessa della quale il salone è il centro ma non il tutto. Pensiamo agli ìnferi, alle cantine che, dietro molteplici mandate di chiavistello, custodiscono come 'caveau' il patrimonio dell'osteria: il vino, i distillati, le salsamenterie con i superbi insaccati del Po, dal culatello in giù. Cantine ove si imbottiglia, ove al lume di candela, si spilla il primo vino, ove - è sempre il caso del mio nonno di cui sopra - ci si nasconde quando arrivano i "todeschi", i "tugnèn". Cantine buie, impregnate dall'umore e dal sentore di terra che promana dal pavimento non lastricato, cantine dall'atmosfera clandestina, ritrovi di carbonari incalliti o di bevitori mistici alla ricerca delle sorgenti che, copiose, offrono all'assetato la loro ambrosia.
Osteria - Hans Barth
Osteria Hans Barth
Cantine dei mattoni a vista, simili "ad una antica cripta romanica e l'oste, col grembiule bianco e le lunghe chiavi appese in vita, ne era il solo grande sacerdote"14.

Sopra la sala della mescita e della ristorazione, si saliva alle camere, qualora l'osteria - come spesso acadeva - ricopriva pure il ruolo di locanda o di alloggio per il viandante, il commerciante, il carrettiere. La differenza tra osteria e locanda "si sviluppa verso la fine del Settecento per prendere corpo, ai primi del Novecento, specialmente per quanto riguarda la locanda che diventa albergo, mentre resta incerta la differenza, fino a non molto tempo fa, tra osteria, trattoria e ristorante15" : obbligatorio allora guardarsi da pulci, cimici, zecche e pidocchi. E non si dimentichino, già che siamo in camera da letto, i piaceri della carne ai quali si poteva ovviare con i servigi di una disponibile donzella e che talora qualche ostessa compiacente alleviava in prima persona16.

Osteria è anche spazio esterno all'edificio: cortili ove i carrettieri possono abbeverare e ristorare gli asini e i cavalli, pergolati che accolgono gli avventori durante la bella stagione, barchesse per il ricovero degli attrezzi e degli animali da cortile che, insieme all'orto, forniscono il companatico, ovvero disegnano il menù della proposta gastronomica del locale. Ma di questo scriveremo la prossima volta.


  • Una prima versione di questo piccolo saggio fu pubblicata nella miscellanea Gli uomini del Po: i mestieri del fiume, a cura di Edgardo Azzi e Alberto Salarelli, Mantova, Sometti, 2000, pp. 95-107. L'autore desidera esprimere la propria gratitudine all'editore Valerio Sometti per aver gentilmente concesso il permesso alla ripubblicazione dell'articolo.
  1. Melchiorre Roberti, Le magistrature veneziane e i loro capitolari fino al 1300, Venezia, Deputazione di Storia Patria, 1911, vol. III, p. 36.
  2. Vittorio Gottardo, Osterie del leone: il vino nella Venezia medioevale, Venezia, Stamperia di Venezia, 1993, p. 19.
  3. Massimo Costantini, Le strutture dell'ospitalità, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 5, p. 908.
  4. ivi, p. 888.
  5. In effetti fino all'unità d'Italia il Po fu realmente frontiera tra il Lombardo-Veneto e i ducati di Parma e Reggio. Zona dunque di transito e contrabbando, il distretto pullulava di forestieri che ingeneravano naturalmente nella popolazione indigena reazioni di autodifesa e chiusura, come dimostra il proverbio riportato da Vivanti "Gent da confin , o lädar o sasìn", Corrado Vivanti, Le campagne del Mantovano nell'età delle Riforme, Milano, Feltrinelli, 1959, p. 239. Sui riti e le avventure dell' "andar a Po" si veda Giovanni Tassoni, Le tradizioni popolari del Mantovano, Suzzara, Bottazzi, 1985, p. 154.
  6. La testimonianza è riportata da Giovanni Tassoni, Arti e tradizioni popolari, Bellinzona, La Vesconta, 1973, p.154.
  7. Relazione dell'Intendente Politico conte Giambattista Gherardo d'Arco dopo la sua visita provinciale del 1788, Archivio di Stato di Mantova, Intendenza Politica di Mantova, b. 105/428.
  8. Gerolamo Romilli, Inchiesta Romilli, Torino, Einaudi, 1979, p. 127, (tit. or. L'agricoltura e le classi agricole nel Mantovano. Risposta al programma per l'Inchiesta Agraria, Mantova, 1879, originariamente inedito).
  9. Bruno Barilli, Il paese del melodramma, Torino, Einaudi, 1985, p. 13.
  10. Claudio Casini, Verdi, Milano, Rusconi, 1982, pp. 11-12.
  11. cfr. C. Vivanti, op. cit., p. 223.
  12. Avviso della Imperial Regia Delegazione Provinciale di Mantova, 1 marzo 1849.
  13. Walter Venchiarutti, L'osteria nella tradizione popolare, nel racconto fantastico e nella realtà etnografica, in Il mondo dell'osteria, a cura del Gruppo Antropologico Cremasco, Crema, Leva Artigrafiche, 1992, p. 35.
  14. ibidem.
  15. L. F. Priori, Ricordo di vecchie osterie a Cremona, in "Provincia Nuova", n. 4, 1985, p. 6. Sulla scarsa igiene per la quale molte osterie andavano tristemente famose, si veda l'imperdibile descrizione di Tommaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Firenze, Olschki, 1996, p. 864 (1 ed. Venezia, Giovanni Battista Somaschi, 1585); ed anche Attilio Brilli, Quando viaggiare era un'arte, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 150-153.
  16. "una molteplicità di indizi induce a pensare che intorno alle taverne, grazie anche ai buoni uffici dei gestori, ruotasse tutta una rete di prostitute, che anzi qualche volta non si sottraessero a questa attività la padrona o le sue figlie o domestiche", Giovanni Cherubini, La taverna nel basso medioevo, in Il tempo libero: economia e società secc. XIII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Atti della "Ventiseiesima settimana di Studi", Istituto Internazionale di Storia Economica "F. Datini" di Prato, 18-23 aprile 1994, Firenze, Le Monnier, 1995, p. 539.

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