Vini e bevitori nelle operette di Giulio Cesare Croce Croce
La testa nel bicchiere
di Michele Simoni
"La penna mia, dedita solo a scrivere cose facete e allegre": così si presenta Giulio Cesare Croce (1550-1609) nel suo testamento poetico, La Descrizione della vita del Croce, attraverso la dichiarazione di praticare una scrittura volta unicamente all'intrattenimento e alle spiritosaggini. L'autore persicetano, che deve la sua fama a Le sottilissime astuzie di Bertoldo e a Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino, i personaggi delle quali, divenuti popolari e proverbiali, sono stati a lungo presenze essenziali nell'immaginario popolare italiano, scrisse moltissime operette brevi, chiamate anche ventarole e muriccioli. Nelle strade di Bologna, Modena, Ferrara, Mantova e Venezia, Croce cantava le sue canzoni, accompagnandosi con il violino (da cui il soprannome di Giulio Cesare della Lira) e vendendo le stampe dei suoi testi. Croce, che sopravvisse per molti anni lavorando come fabbro a Bologna e che ebbe la possibilità di conoscere, sin da giovane, sia la realtà povera dei contadini che quella agiata dei signori terrieri, fu uno dei più attenti osservatori del panorama sociale "italiano" tra Cinque e Seicento. Le parole con cui egli stesso si definisce un poeta di poche pretese che mette la propria penna al servizio delle facili risate degli ascoltatori-lettori mascherano un'acuta capacità di cogliere in modo diretto le dinamiche sociali e la complessità del reale, qualità proprie solo di un artista di alto livello, dalla mano e dal cervello fino. I suoi numerosi scritti (alcuni in dialetto, altri in una lingua volgare) sono diretta espressione di una cultura popolare cittadina, piena di misurato buon senso e di moralismo, ma lasciano spesso trasparire le tracce amare della realtà quotidiana del tempo. Tra le sue operette risultano quasi tutti i generi della letteratura popolare (dai capitoli alle canzoni, dalle commedie ai sonetti, ecc.) la cui origine risaliva al medioevo e che era stata ripresa e rinnovata da alcuni autori anticlassicisti del primo Cinquecento, come il Ruzzante ed il Folengo.
I temi crociani della fame, della povertà e della carestia vanno di pari passo con l'attenzione rivolta alle attività lavorative e alla vita quotidiana delle classi popolari. Attraverso forme stilistiche diverse il Croce cerca sempre di partire dalla materia che ha sotto gli occhi e dagli odori che si ritrova sotto il naso per conferire veridicità e autenticità alle proprie pagine. Il realismo di Croce (riassunto in questi suoi versi: "Io dico pane al pane, e pero al pero / e vado schiettamente a la carlona / e fin ch'io vivo voglio dire il vero") emerge anche e soprattutto nelle opere in cui vengono toccati temi carnevaleschi, che permettono di sviluppare motivi come la trasgressione e la parodia delle norme sociali. La parodia del Croce, spesso bonaria e contenuta, non è esente da un sotterraneo e fermentante spirito critico, quasi compresso a fatica dall'autore sotto una grassa patina di sostanza scrittoria ed enogastronomica. Croce si propone di parlare chiaro (lasciando le urla ad altri) per essere capito e apprezzato anche da un pubblico che non sia solo quello ristretto dell'aristocrazia cittadina. Con la penna in mano, Giulio Cesare Croce lavora una materia informe e incandescente, a volte con un tocco leggero, altre con notevole forza espressiva. E la sua penna assesta colpi che, in confronto, le pesanti martellate nella fucina del suo padrone sembrano solo "chiacchere e bargellette allegre".
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Incisione di Giuseppe Maria Mitelli (1634-1718) |
Altro strumento che Croce utilizzò per dar vita e spessore ai suoi personaggi fu il bicchiere, il costante sollevamento del quale dovette fornirgli grande dimestichezza con la materia enologica. Alcune delle sue operette ruotano infatti attorno alla bevanda di Bacco: negli Intrichi, rumori, chiacchiere, viluppi, fracassi che si fanno nella città di Bologna al tempo delle vendemmie nel condurre l'uve nelle castellate, e nel fare i vini e nel Vanto di dui villani cioè Sandron e Burtlin sopra l'astutie tenute da essi nel vendere le castellate quest'anno, Croce narra situazioni, in quegli anni condite da aspre carestie, che si verificavano ogni agosto con il tradizionale trasporto e vendita in città dell'uva pigiata nel contado. Ne gli Intrichi… l'autore regala, attraverso la concitata enumerazione di tutti gli oggetti principali impiegati nel trasporto e nella lavorazione del vino, una veloce panoramica dell'avvenimento, trasmettendo un senso di vitalità e realismo sottolineato dalla specificazione dello stesso autore quando racconta che "dirollo a voi nella lingua che s'usa qui tra noi", cioè nel dialetto bolognese. Croce canterà infatti de "i travagli che son dentro e fuori, / quando le castellate intorno vanno, / e 'l gridar de' villani e cittadini; / furie de' rastellini, / messedar botti, bigonci, e tinazzi, / far sughi, sabba, agreste, e altri impazzi, / e barili, e bottazzi, / calastre, reme, cocconi e cannelle, / orzi, pignatte, bicchieri e scodelle, / e cento altre novelle, / che vanno in opra in simil'esercizio, / come per esperienza avete indizio" La piazza e le strade dove le castellate (recipienti di legno usati per il trasporto dell'uva) venivano vendute pullulavano di un incredibile fermento vitale, di una carica di particolari che si mischiavano e confondevano con le parole e i gesti dei "negozi". Gli Intrichi…, come pure il Vanto di dui villani… sono l'illustrazione sonora dell'attività commerciale della Bologna tardo-rinascimentale. Nel Vanto di dui villani… Croce, innestandosi sulla tradizione della satira del villano già abbozzata ne gli Intrichi…, ma qui più evidente, narra le quotidiane scaltrezze di due contadini, Sandron e Burtlin, impegnati nella vendita delle castellate con l'utilizzo di astuzie che gli permettano di frodare i compratori. Infatti i due protagonisti si impegnano nel raggirare i clienti che, pagando prezzi altissimi, rischiano di ritrovarsi in cantina più acqua che vino. Comunque, a questa satira nei confronti dei contadini proverbialmente disonesti, Croce affianca l'espressione da parte della classe subalterna rurale di una coscienza propria e di un forte disagio sociale sfociante in lamenti contro la miseria e l'oppressione. In queste due operette di Croce, oltre alla celebrazione di un momento importante per la vita del commercio fra contado e città, viene implicitamente valorizzato anche lo spirito attivo dei contadini, il loro carattere positivo di produttori, la loro abilità nel plasmare la materia naturale e nel maneggiare gli strumenti da lavoro.
Il vino è il motore anche del bellissimo Lamento de' bevanti per la gran carestia del vino e delle castellate di questo anno. Sponga, Trippa e Bacialorcio, i tre protagonisti dell'operetta innamorati del vino, si sfogano per la sua momentanea scarsezza dovuta alla magra raccolta ed ai raggiri dei contadini. I tre bevitori, quando alzano la coppa e trangugiano il vino sentono "nel cor una dolcezza ch'altra maggior di quella non si sente": il vino è per loro l'elemento fondamentale per la realizzazione di una vita felice. E solo il pensiero di dovervi rinunciare per una stagione manda in crisi gran parte dell'umanità crociana. Tale è l'amore ed il bisogno di vino da far dichiarare a Trippa che "la gola aveamo al bere avvezza, / e le nostre budelle usate al vino, / che strana gli parà tanta strettezza. / Ma s'altro non avrò che quel quattrino / non voglio che patisca la mia gola, / e più tosto nudo andrò, tristo e tapino". Il vino porta allegria e consolazione ed è sempre Trippa a sottolineare che "quando ho bevuto o che buona loquella / mi trovo aver, ma s'io non ho da bere / non posso aver né fiato né favella": la convivialità è il dono che il vino, primo motore e dio onnipresente dei protagonisti, elargisce come consolazione per i travagli della vita. In questo caso, i personaggi di Croce bevono solo e unicamente per ubriacarsi, non negano al loro dio l'unico rito che ne può propiziare la clemenza. Per Trippa e i suoi compagni l'ubriacatura è una fuga in un mondo parallelo in cui il freddo, la fame, la puzza e la sporcizia sono sostituiti dai frutti del mitico Paese di Cuccagna. Quando si ritroveranno all'interno della loro sacra taverna, i tre avventori parteciperanno, sotto la guida dell'oste, ministro del vino e delle vivande grasse, alla celebrazione del loro credo.
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Incisione di Giuseppe Maria Mitelli (1634-1718) |
Giocando e trangugiando si potrà così dar vita a una messa chiassosa e celebrare un piacere che, nella sua carnale perfezione, si fa "ver'arte":" Et ora una viola, ora una lira, / sentir sonare, or far venir le carte / ch'a giocar qui non è chi si ritira. / Ora far a la mora a due per parte, / un boccale a le cinque, o una foietta, / che questa de' bevanti è la ver'arte". La divinazione del vino non può poi finire che con un elogio alle sue qualità e benevolenze, con un inno dove Bacialorcio esulta: "piacemi veder dentro i boccali / quei vin saltanti, somiglianti a l'oro, / che m'allegrano i spiriti vitali. / Quei mi confortan, quei che mi dan ristoro, / quei mi van mantenendo d'anno in anno, / e lascerei per essi ogni tesoro". Intonando questa lode al vino, soprattutto in un momento in cui l'uva scarseggia, i personaggi di Croce cercano di esorcizzare le loro paure e di spremere dalle parole almeno qualche sorso di pensiero che li sazi e li renda allegri. Il vino rende ciarlieri, riconforta ed aiuta a vivere, ancor meglio se nell'atmosfera fraternamente conviviale dell'osteria, in cui tutti sono d'accordo per mangiare, bere, cantare e dimenticare le sciagure del mondo. L'osteria è un "modus vivendi" privilegiato, protetto: è la risposta della miseria ad una condizione disperata. L'opera è quindi un inno a tre voci alla gioia spensierata ottenuta con la cosciente alterazione alcolica, breve parentesi nel corso di una vita, in quel periodo storico, messa quotidianamente in pericolo dalla malattia e dalla fame.
Questi sono solo alcuni esempi della notevole considerazione che il vino ebbe nei pensieri (e sul palato) del Croce. Il poeta persicetano, attraverso questa bevanda importantissima per la nostra storia sociale e enogastronomica, è riuscito a creare personaggi e a dar vita a situazioni in cui il realismo si mescola deliziosamente al sorriso e alla riflessione. Storie di "orzi, pignatte, bicchieri e scodelle", di disagi e furbizie contadine, di bocche e "budelle usate al vino", pigiate nella mente di uno scrittore che aveva il dono e l'arte di mostrare le cose per quello che sono. Rincorrendo sempre con la penna e la forchetta un cappone lesso o una porchetta arrosto. E con la testa, spesso e volentieri… immersa in un grande bicchiere!
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