La preparazione di un pranzo memorabile nell'ultimo romanzo di Piero Meldini
Nell’ultimo romanzo di Piero Meldini, di scrittura elegante e fine senza artifici, racconto drammatico eppur lieve di piccole e grandi gioie e dolori, speranze e illusioni della provincia romagnola nell’Ottocento, cosparso di ironia e umorismo fini come veli di zucchero su un Pan di Spagna, fa la sua comparsa – e in grande stile (come diversamente si può dire quando la memoria va quasi naturalmente a Thomas Mann e Tomasi di Lampedusa?) la cucina, la gastronomia.
Piero Meldini, uno di quelli che hanno fatto la storia della cultura e della emancipazione della civiltà della tavola in Italia negli ultimi decenni, non aveva mai ceduto alla tentazione di approfittare di questa circostanza per “allungare il brodo” (ci perdoni la immancabile metafora gastronomica) dei suoi precedenti romanzi “storici”, per onestà intellettuale (troppi lo fanno e ci giocano senza reale convinzione né capacità) e perché, evidentemente, non (se) ne avvertiva la necessità in quei contesti narrativi, né i lettori ne hanno avvertito la mancanza.
Quando ha deciso di farlo, in questo ultimo lavoro, del tutto all’altezza delle sue prove migliori (in certi momenti al di sopra di quell’altezza), lo ha fatto da par suo, magistralmente, non ponendosi nemmeno il problema di rapportarsi a precedenti ardui e famosi. Da scrittore di razza, come si dice, ahimé talvolta abusivamente, ha raccontato e descritto un grande pranzo, soprattutto la sua preparazione, rendendocene affettuosamente partecipi, trasmettendoci vividamente ansie e preoccupazioni, fatiche ed emozioni. Anche in questo suo strappo alla regola, ha voluto insomma uscire un po’ dalle regole, cercando (e riuscendovi), come ricordato, non tanto puntando sul gusto e sul rito della consumazione del pranzo, quanto sulle modalità, altrettanto accattivanti e “gustose”, della sua complessa e attenta organizzazione.
da: Piero Meldini
(La falce dell’ultimo quarto. Milano, Mondadori, 2004)
[…]
Erano le sei del mattino e Bartolomeo era già in piedi. Nella cucina ancora buia osservava Flaminia che, accovacciata davanti al camino, fiammeggiava i capponi: nudi, gialli e indifesi. Si udiva il crepitio della peluria bruciacchiata, e ne arrivava alle narici l’odore pungente.
«Ma come» disse, «sono solo due? Non bastano.»
«Bastano e avanzano» ribatté la serva.
«E quante uova hai usato per la sfoglia?»
«Sei» sbuffò Flaminia.
«Sei?» si inquietò il mercante. «Troppo poche. Il minimo indispensabile è una per commensale.»
«Sta’ tranquillo» disse la serva. «Andrà tutto bene.»
«Speriamo» sospirò Bartolomeo.
La lista delle vivande era pronta da una settimana; la dispensa era stata rifornita tre giorni prima; Flaminia aveva già preparato una buona metà delle pietanze e si apprestava a cucinare l’altra metà. I mostaccioli, le bocche di dama, la pinocchiata, il marzapane e il torrone erano stati ordinati alla caffetteria Cervellati, che si trovava sotto i portici di piazza Sant’Antonio, proprio di fronte all’abitazione del mercante. Costui si era anche accordato con la proprietaria perché gli prestasse per un giorno il suo cameriere: anziano, e perciò esperto, ma sempre in gamba. E soprattutto di modi civili. S
Bartolomeo estrasse l’orologio dal taschino del panciotto. Le sei e un quarto. Il conte Ambrosi e i suoi familiari erano attesi per mezzogiorno spaccato. Non c’era un minuto da perdere. Si avvicinò ai fornelli e scoperchiò a uno a uno tutti i tegami, ispezionandone il contenuto e valutando l’aspetto e il profumo dei cibi. Qua e là saggiandone il sapore, dopo avervi bagnato la punta del dito medio. L’intingolo di fegatelli e prosciutto per condire le lasagne aveva sobbollito appena tre ore, quando ce ne volevano almeno il doppio. Lo stracotto di manzo era già a buon punto; purtroppo si era alquanto ristretto. Nella pignatta, sotto uno strato di sugna alto un dito, borbottava nel suo brodo la carne
grossa. Nelle casseruole si addensavano le salse: la finanziera per gli arrosti; l’acciugata per il lesso; la réinoulade per il pesce. Nella padella si scioglieva lo strutto. Un rombo di quindici libbre giaceva in disparte su un letto di ghiaccio e sale. L’ampia cucina era punteggiata di fuochi, e intrisa di vapori ed effluvi come l’antro di un Vulcano gastronomo.
Flaminia, che ora stava grattugiando il formaggio piacentino per la farcia dei capponi, si girò verso Bartolomeo: «Torna di là» gli intimò. «Qui sei solo d’impiccio.»
«Agli ordini» disse il mercante, e si avviò verso la porta. Si fermò. «Se per caso dovessi entrare nella sala dove stiamo desinando» ripigliò, «ricordati di rivolgerti a me con il “voi”. Non che me ne importi qualcosa, mi conosci, ma non vorrei che i miei ospiti pensassero male.»
«Dio ci scampi» mormorò la serva fra i denti.
Bartolomeo, percorso il lungo e gelido corridoio, entrò nella sala da pranzo e ne apprezzò il tepore. Grossi ceppi d’ulivo ardevano sotto la cenere fin dalla sera prima, spandendo un lieve aroma amarognolo. Il tavolo era già apparecchiato per otto. Sopra la tovaglia di seta cruda orlata di pizzo erano collocati, con perfetta simmetria, i piatti, i vassoi e le zuppiere del servizio di porcellana portato in dote da Costanza, i bicchieri e le bottiglie di cristallo all’uso di Boemia, le posate d’argento. D’argento massiccio erano anche i due candelieri al centro del tavolo. L’ordine dei posti, strategico in simili circostanze, era stato studiato dal mercante e concordato con il conte Ambrosi. Ai due capi del
tavolo si sarebbero seduti loro due; il conte avrebbe avuto alla sua destra Felicita e alla sua sinistra la figlia minore; Bartolomeo, la signora contessa e la figlia maggiore; Giacomo avrebbe preso posto fra la giovane Lucietta e la contessa; Orfeo fra Cecilia e la propria zia.
Il mercante controllò e ricontrollò ogni particolare: il numero delle posate; se i cristalli splendessero; se gli argenti fossero stati lucidati; se le candele fossero di prima qualità; se il vasellame esposto nella credenza fosse stato spolverato. Sembrava tutto perfetto. Certo, la mobilia era più robusta che leggiadra e di stili discordi, ma l’impressione che doveva dare non era quella della finezza, bensì della solidità e dell’agio, come si conviene alla dimora di un mercante.
Alle sette Bartolomeo terminò l’ispezione. Alle sette e mezzo svegliò Orfeo e con uno sguardo severo troncò sul nascere le sue timide obiezioni. Alle otto andò a messa nella vicina chiesa dei padri paolotti. Alle nove rientrò e fece la seconda colazione. Alle dieci tornò in cucina per un ultimo esame. Alle dieci e mezzo si cambiò d’abito, indossando la sua muta migliore. Dalle undici alle undici e mezzo impartì al cameriere disposizioni puntigliose, e lo subissò di raccomandazioni. Alle undici e mezzo, stanco morto, si lasciò cadere sul divano e aspettò l’arrivo dei suoi ospiti con le gambe che gli tremavano e il cuore che gli batteva in gola come prima di un appuntamento galante. Mefisto si acciambellò accanto a lui, ma rimase con gli occhi aperti e le orecchie dritte. La coda, serpeggiando,
manifestava la sua insofferenza per l’insolita animazione.
Giacomo e sua madre giunsero, come d’accordo, dieci minuti prima di mezzogiorno. Il mercante scrutò il nipote: aveva la faccia assonnata e pallida, e i lividi sotto gli occhi. Dopo la bravata a teatro, aveva fatto di sicuro le ore piccole con i suoi nuovi amici. Scelti proprio nel mazzo, quelli. «Non farmi sfigurare col conte Ambrosi» lo ammonì. «C’è di mezzo un affare importante» finse a metà. «E vedi di essere amabile con le sue belle figlie.»
Era una giornata fredda ma limpida. Il cielo era di un fulgido e immacolato color zaffiro, e il sole illuminava tutte le stanze sul davanti della casa, a cominciare dalla sala da pranzo. La luce dorata che entrava dalle finestre, alleata al tepore che spandeva il fuoco del camino, annunciava la primavera. Un soffio di primavera avrebbe spirato di lì a poco, fresco, puro e profumato. L’avrebbero portato Cecilia e Lucietta.
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