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L'abbondanza dei poveri
da Massimo Montanari

Undici anni fa usciva, a inaugurare una prestigiosa collana internazionale di studi storici, diretta da Jacques Le Goff, uno dei libri più belli di Massimo Montanari, La fame e l'abbondanza. Mutuando un'espressione di matrice prevalentemente cinematografica, è, per gli studiosi e gli appassionati di storia dell'alimentazione, un "cult book", di quelli che si possono leggere e rileggere, come certi film e certi altri libri. A undici anni di distanza, Montanari, altrettanto capace di fare l'uomo- squadra come i suoi (perdonate…) "amati" Zidane e Platini, e nello stesso tempo un formidabile team-manager (si pensi, tra le tante, all'ultima, grande impresa - su cui torneremo - dell'Atlante Utet) ci offre, attraverso le pagine di quel libro) l'occasione di arricchire il nostro mini dossier sul 1° maggio, su "pane e lavoro", con un brano di rara acutezza (e bellezza). (MenSA)



L'abbondanza dei poveri
M.M. La fame e l'abbondanza. Storia dell'alimentazione in Europa. Roma-Bari, Laterza, 1993
L'antidoto più efficace alla paura della fame è il sogno. Il sogno della tranquillità e del benessere alimentare; o piuttosto dell'abbondanza, dell'abbuffata. Il sogno di un paese di Cuccagna dove il cibo sia inesauribile e a portata di mano; dove gigantesche pentole di gnocchi siano rovesciate su montagne di formaggio grattugiato; dove le vigne siano legate con le salsicce, e i campi di grano recintati di carne arrosto. L'immaginario cuccagnesco, sorta di versione popolare delle 'colte' mitologie edeniche, prende corpo fra XII e XIV secolo. In un celebre fabliau francese - il primo che ne faccia dettagliata descrizione - il pais de Coquaigne è quello in cui
"di spigole, salmoni e aringhe sono fatti i muri di tutte le case; le capriate sono di storioni, i tetti di prosciutti e correnti di salsicce [...]. Di pezzi di carne arrosto e di spalle di maiale sono circondati tutti i campi di grano; per le strade si rosolano grasse oche che si girano da sole su se stesse, e da vicino sono seguite da candida salsa all'aglio; e vi dico che per ogni dove, per i sentieri e per le vie, si trovano tavole imbandite, con sopra candide tovaglie: tutti quelli che ne hanno voglia possono mangiare e bere liberamente; senza divieto né opposizione ciascuno prende ciò che desidera, pesce o carne, e chi volesse portarsene via un carro potrebbe farlo a suo piacimento [...]. Ed è sacrosanta verità che in quella contrada benedetta scorre un fiume di vino [...] per metà di vino rosso, del migliore che si possa trovare a Beaune o oltremare; per l'altra metà di vino bianco, del più generoso e prelibato che mai sia stato prodotto a Auxerre, a La Rochelle o a Tonnerre".

A iniziare soprattutto dal XIV secolo, molti paesi come questo - che il nostro autore, ahilui, ha lasciato e non riesce più a ritrovare - spuntano in testi letterari di ogni zona d'Europa: Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, Italia... In una novella di Boccaccio si chiama Bengodi, e le sue meraviglie sono decantate da Maso all'ingenuo Calandrino: "eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la qual stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli, e cuocerli in brodo di capponi, e poi gli gettavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'aveva[...]". Non manca in queste utopiche descrizioni l'auspicio di una sessualità libera e felice, né il sogno dell'eterna giovinezza, più direttamente collegato con le immagini antiche dell'Età di Saturno o del mitico Eden. Non manca l'auspicio, tutto cittadino e 'borghese', di una facile ricchezza e di una borsa sempre piena. Non manca il desiderio di belle vesti e calzature preziose. Ma il tema alimentare, inizialmente solo uno tra gli altri (nel fabliau de Coquaigne, solo 50 versi su 186 narrano le delizie del palato), prende via via il sopravvento fino a diventare protagonista quasi unico dell'utopia, che nei secoli XVI-XVII si connota in senso sempre più francamente ventresco. Nel 1691, il Gioco della cuccagna dell'incisore Giuseppe Mitelli non sarà più che una rassegna di specialità gastronomiche. "La riduzione di Cuccagna a un puro e semplice fatto gastronomico, l'assimilazione progressiva di Cuccagna a Carnevale)) (P. Camporesi) sono anche l'indizio di una situazione alimentare deteriorata, di una crescente difficoltà, dopo il XVI secolo, a mangiare secondo la propria fame: un desiderio di chiara marca popolare, anche se non propriamente 'popolari' sono i testi che ce l'hanno trasmesso.

Non vogliamo qui entrare nel merito di una questione che rimane dibattutissima fra gli storici della cultura: se, e fino a che punto, la cultura 'dotta' possa farsi portatrice, diretta o indiretta, di contenuti schiettamente 'popolari'. C'è, comunque, fra i due piani molta più corisonanza di quanto non si sospetterebbe: la cultura dell'ostentazione e dello spreco non si comprende al di fuori della cultura della fame. E dunque, in primo luogo, le 'due' culture si rimandano dialetticamente l'una all'altra e si esprimono a vicenda. In secondo luogo esse coesistono, incrociate, non solo come espressioni contrapposte di diverse categorie sociali e culturali, ma all'interno stesso di ciascuna di quelle categorie. La fame, in senso proprio, è un'esperienza sconosciuta ai ceti privilegiati; non però la paura della fame, la preoccupazione di un approvvigionamento alimentare che sia all'altezza delle proprie (alte) aspettative. Viceversa, il mondo della fame è anche - in determinate circostanze - un mondo dell'abbondanza e dell'ostentazione: anche la società contadina conosce momenti di sperpero del cibo, in occasione delle grandi festività e delle principali ricorrenze della vita. Sperpero rituale, certo, e di valenza soprattutto propiziatoria; ma sperpero reale, concreto, che di fatto avvicina (in quei momenti) il comportamento alimentare dei 'poveri' a quello dei 'ricchi'. E tutti devono vedere, tutti devono sapere: a Napoli, nel Settecento, una schiera di banditori grida per le vie della città l'elenco degli animali abbattuti e la quantità dei cibi che si sono consumati durante le festività natalizie: una prassi ostentatoria non dissimile, nel significato, dalla mostra di cibo che si faceva nei palazzi nobiliari (e fuori di essi, nelle vie, nelle piazze) in occasione delle grandi feste e dei grandi sperperi - peraltro relativi: nulla andava veramente sprecato.

Sembra che, rispetto all'assimilazione di cibo, l'homo sapiens abbia storicamente sviluppato una straordinaria capacità di adattamento fisiologico, modificando di volta in volta le proprie esigenze a seconda dell'effettiva disponibilità di risorse, ora abbondanti (ad esempio nella stagione della caccia) ora scarse. Di qui la sua capacità di mangiare molto e finanche troppo; ma anche di sopravvivere con poco (ovviamente fino a un certo punto). Biologicamente incorporata nella specie umana fin da quando la sua attività era soprattutto predatrice, tale realtà ha anche condizionato caratteri e atteggiamenti culturali: l'antitesi abbondanza/scarsità è divenuta un fatto mentale oltre che fisiologico, e si è trasmessa storicamente adattandosi alle concrete situazioni sociali. Solo la fantasia, o l'interesse, dei pochi privilegiati ha potuto partorire immagini di povertà felice, di una frugalità (quella dei più) lietamente contenta di sé. E sarà anche vero che mangiar poco fa bene; ma solo a chi mangia molto (o almeno, può mangiare molto) è consentito pensano. Solo una lunga esperienza di pancia piena può giustificare il brivido di un appetito tenuto a freno. Gli affamati, quelli veri, hanno sempre desiderato riempirsi a crepapelle: facendolo, ogni tanto; sognandolo, spesso.

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