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Cosa ne pensano gli opinion leader
Macché “bollicine”, continuiamo a chiamarlo “spumante”!
di  Enophilus

L’importante è che sia prodotto con regole rigorose: ecco cosa ne pensano gli opinion leader del “wine & food”

“Bollicine” è forse un termine più glamour, ma in questo caso è preferibile seguire il filo della tradizione e continuare a chiamarlo “spumante”: l’importante è che sia prodotto seguendo regole rigorose, Macché bollicine, continuiamo a chiamarlo spumante! con maggiori vincoli qualitativi e territoriali. Meglio ancora se tutti gli spumanti italiani potessero fregiarsi della denominazione Doc o Docg, poiché ad oggi la qualità sembra essere affidata, tranne rare eccezioni, alla riconoscibilità dei brand piuttosto che a sistemi di regole imposte dal territorio. Gli spumanti italiani valgono soprattutto perché vale la cantina che li produce, ubicata principalmente in Franciacorta, nel distretto di Conegliano e Valdobbiadene, in Trentino e nell’Asti, a rimarcare anche il valore dei terroir. Uno dei punti di forza della produzione spumantistica italiana è anche la sua ricchezza varietale, con vitigni particolari come il campano Asprinio d’Aversa, i piemontesi Erbaluce di Caluso e Cortese di Gavi o il siciliano Nerello Mascalese, sempre più in ascesa sul mercato. Peccato, però, che gli spumanti di casa nostra non siano ancora riusciti a diventare dei “love brand”, in possesso della medesima forza evocativa dei marchi eletti a status symbol internazionali.

E’ questa l’opinione dei più importanti giornalisti e opinion leader del “wine & food” italiano, protagonisti del sondaggio promosso da www.winenews.it, uno dei siti di comunicazione sul mondo del vino più cliccati dagli amanti del buon bere e dal Forum degli Spumanti d’Italia (www.forumspumantiditalia.it), una sorta di “Cernobbio degli Spumanti”, che con iniziative (convegni, indagini, incontri tecnici) punta a creare una “forza di filiera” per raggiungere obiettivi strategici nazionali e internazionali. L’indagine, indirizzata a 120 professionisti (con risposte da 96), è volta a tracciare la percezione di uno dei più interessanti prodotti dell’enologia del Bel Paese: per il 53% degli intervistati, l’impatto comunicativo del termine “spumante” è più efficace di quello di “bollicine”; nonostante che il termine “bollicine” sia in termini di marketing più incisivo, almeno secondo alcuni, è altrettanto vero che il suo senso resta eccessivamente vago e, nella peggiore delle ipotesi, addirittura banalizzante; il termine “bollicine” potrebbe nell’immediato essere più glamour, ma la definizione “spumante” resta senz’altro più precisa, completa e già “sedimentata” nella lingua e nei comportamenti diffusi. Parere quasi unanime sulla necessità di regole più rigorose per gli spumanti: il 94% ritiene che il comparto spumantistico dovrebbe avere più vincoli, qualitativi, territoriali, regionali e di metodo produttivo, di quelli attuali; per gli opinion leader del “wine & food”, in giro ci sono ancora molti prodotti che niente hanno a che vedere con uno spumante e il caos sembra davvero regnare sovrano; la qualità è affidata, salvo rare eccezioni, alla riconoscibilità dei brand piuttosto che al sistema qualitativo imposto da un territorio. Ma il giudizio del campione analizzato è ancora più duro quando si considera gli effetti del marketing dello spumante d’Italia: poca o nulla distinzione dei prodotti a marchio da quelli di massa, scelta strategica tutta orientata sulla piacevolezza del vino con le bollicine, piuttosto che sulla sua intrinseca valorialità (intesa come processo, come territorialità e come qualità).

Macché bollicine, continuiamo a chiamarlo spumante!

In linea con questa visione, ma con qualche dubbio sulla sua effettiva praticabilità, l’auspicio (58%) che tutti gli spumanti diventino vini a denominazione d’origine: una opzione in grado di articolare con più solidità questa tipologia, ma, appunto, di attuazione tendenzialmente molto complicata; anche in questo caso, dalle risposte dei “sondati” trapela la convinzione che, nel mondo spumantistico italiano, ci sia ancora molta confusione e che di molti prodotti non si conosca né l’origine né i vitigni con cui questi vini sono prodotti. Una medesima percentuale di risposte (58%), a conferma di questa sensibilità verso il potenziale degli spumanti a Doc/Docg, rileva che, sia sul piano della qualità sia su quello dell’immagine, gli spumanti a denominazione si distinguono nettamente da quelli privi di questa caratteristica, anche se gli opinion leader segnalano una differenziazione più consistente specialmente dal punto di vista dell’immagine, data, evidentemente, dalla capacità delle aziende dotate di più risorse, maggiore professionalità e una politica commerciale più articolata. Apparentemente contraddittoria la convinzione degli intervistati (76%) che, al di là delle metodologie di produzione, esistano spumanti che risultano migliori in assoluto; una risposta che, evidentemente, va letta considerando il rilevante peso specifico dei grandi marchi di casa nostra. Per il campione sondato, non ci sono dubbi: esistono spumanti che valgono perché vale la marca della cantina che li produce, ubicata principalmente in Franciacorta, nel distretto di Conegliano e Valdobbiadene, Macché bollicine, continuiamo a chiamarlo spumante! in Trentino e nell’Asti, a rimarcare anche il valore dei terroir. Un valore rimarcato ulteriormente dal fatto che gli opinion leader non hanno dubbi sul considerare i grandi territori degli spumanti ormai alla stregua dei luoghi dove nascono i vini più importanti del Bel Paese: il piacere di bere uno spumante non finisce, insomma, con il finire della bottiglia, ma prosegue visitando vigneti e cantine per comprendere fino in fondo il loro spessore storico, sociale e culturale.

Non sono mancate poi segnalazioni a proposito della grande ricchezza varietale che, anche in fatto di spumanti, distingue la produzione spumantistica italiana: dal campano Asprinio d’Aversa, al piemontese Erbaluce di Caluso, fino al siciliano Nerello Mascalase, solo per fare alcuni degli esempi più noti. Gli opinion leader del “wine & food” hanno indicato, in una sorta di classifica dei migliori, anche le cantine capaci di interpretare al meglio questa forza competitiva: al primo posto, c’è il “triumvirato” degli spumanti Ferrari-Bellavista-Ca’ del Bosco; quindi Bisol; a seguire, gli spumanti Antinori (compresa la franciacortina Montenisa), Berlucchi, Fontanafredda, Gancia, Martini, Rotari-Mezzacorona. Ed ancora Contadi Castaldi, Uberti, Monte Rossa, Cavit, Cesarini Sforza, Banfi, La Scolca. Nessuna incertezza, almeno stando alla percentuale (70%), sul fatto che gli spumanti italiani ancora non sono riusciti a diventare, neppure con le cantine migliori, dei “love brand” percepiti internazionalmente, con la medesima forza evocativa dei marchi eletti a status symbol. Evidentemente, la concorrenza del glamour dello Champagne è ancora molto solida. E se, certamente, cantine del Bel Paese dello spumante sono molto vicine per qualità e immagine ai “cugini” francesi, nessun spumante italiano si è affermato come marcatore di uno stile, come segno distintivo di una valorialità capace di oltrepassare il prodotto stesso. Uno su tre degli opinion leader del “wine & food” ha affermato di stappare almeno 80 bottiglie di spumante all’anno: un dato che indica un solido trend di consumo tra gli esperti di settore che, per una buona bottiglia, sono disposti, senza nessun sacrificio, a scavalcare i troppo spesso formali dogmi dell’abbinamento, considerando ormai lo spumante un vino “a tutto pasto”.

Macché bollicine, continuiamo a chiamarlo spumante!

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