L’ultimo pranzo
di Ludovico Pensato
L’ultima volta che ho mangiato noodles in brodo è stata
l’ultima volta che ho mangiato noodles in brodo. L’ultima volta che ho mangiato noodles in brodo ancora non lo sapevo che sarebbe stata l’ultima. Prima di mangiare i noodles in brodo l’ultima volta, non sapevo che sarebbe stata l’ultima. Dopo averli mangiati lo sapevo, era l’ultima volta che mangiavo i noodles in brodo, nonostante fosse la prima.
Barcellona, Catalogna, Spagna, Europa. Già l’Asia è un altro continente, il Giappone poi è lontano, quasi un altro mondo, e se avessi ancora bisogno di conferme in merito, i noodles (spaghetti di grano tipici della cucina asiatica) mi hanno suggerito, nonostante le nostre diverse nature (organicamente e biologicamente, prima ancora che culturalmente parlando) che la globalizzazione funziona e non funziona.
Funziona: “Udon”, catena giapponese di spaghetteria espressa (?) apre un negozio in pieno centro a Barcellona. Siamo nel Borne, quartiere trendy (è trendy, e quindi quasi necessario, dire trendy) della capitale catalana: di fronte a me, a pochi passi il Museu Picasso, poco oltre la meravigliosa Santa Maria del Mar, alle mie spalle risalendo Via Laietana, il Palau de la Musica Catalana e qui, in questo angolino incastrato tra le bellezze locali, timido e apparentemente ingenuo il piccolo “Noodles Bar” aspetta l’invasione di turisti (pochi), lavoratori in pausa pranzo (la maggior parte), studenti (come i turisti) che tutti i giorni dall’una alle tre si danno incessantemente il cambio ai tavoli bianchissimi e rigorosamente spogli di questa scatola in pieno stile minimal-fashion giapponese che pare avere magneti alle pareti, visto come gli euro nelle tasche dei passanti si fermano quasi di colpo davanti alle sue vetrate, desiderosi di essere spesi in uno dei menu a prezzo fisso proposti per il pranzo.
Non funziona: questione di relativismo culturale, senza dubbio. Approccio forse sbagliato che denuncia una non eccessiva apertura mentale. Giuro che sono tendenzialmente neofilo, eppure questo piatto non mi convince. Se fossi in Giappone come mi comporterei? Credo avrei più entusiasmo, sicuramente meno remore; sono decisamente un sostenitore del “paese che vai, cibo che trovi”. Però a casa mia (a Bologna, Italia, Europa, come Barcellona lontana dall’Asia, dal Giappone e da numerosi altri Paesi) ogni tanto l’etnico ci sta, perciò, visto che al momento Barcellona è casa mia, l’etnico ci sta pure qui: non fa una piega, il ragionamento funziona, è il noodle che non funziona granché.
La cameriera, una ragazza sui venticinque anni che porta una divisa chiaramente nera e un viso imbronciato (la tristezza fa molto minimal, forse deve essere imbronciata per contratto, o è semplicemente una studentessa sottopagata ma costretta a fare la cameriera per pagare il posto letto in doppia a trecentocinquanta euro – non è vero che i prezzi sono più bassi che da noi – e per questo arrabbiata con il mondo?) ci lascia svogliatamente due menu sul tavolo bianchissimo mentre ci chiede altrettanto svogliatamente cosa vogliamo bere: “una coca cola e una birra Asahi, grazie”. Nessun prego, le dita annoiate battono sul palmare l’ordine mentre l’”effervescente” creatura si allontana eterea, anzi apatica e anche un po’ antipatica.
I menu, sempre minimal, pochi colori ma molto flash (fucsia, giallo, verde acido) e foto ipersaturate al computer, smuovono la bianco&neritudine dell’ambiente e per associazione mentale rapida e tortuosa passo dai manga, a “Mazinga Z”, a “Mai dire Banzai”: che ridere, e pensare che uno dei mitici personaggi con il testone di carta pesta era Takaeshi Kitano.
I noodles in brodo che arrivano con la “gioiosa” ragazza di cui sopra sono gioiosi quanto lei, non assomigliano affatto ai noodles “photoshoppati” del menu; maledetto digital editing, eppure dovevo immaginarlo, io che mi diverto tanto con il fotoritocco.
Nuotano, no, galleggiano (poiché inanimati) noodles grigiastri in un brodo grigiastro che al colore neutro tendente al brutto associa un sapore neutro tendente all’affumicato.
Sono scotti, dannazione sono scotti. No, no e no, se c’è una cosa che mi deprime in cucina è la pasta scotta - una volta, avevo tredici anni, tornai a casa dopo l’allenamento di pallacanestro, mia madre aveva preparato la pasta ma ero arrivato tardi ed era scotta: piansi.
Qua e la dal nebuloso grigiume brodoso affiorano spettrali carcasse di tempura, o meglio, di pastella di tempura. Domanda: cosa succede alla pastella del fritto quando, una volta fritta, la buttate e la lasciate in un liquido bollente? Risposta: si impregna,
si ammolla e si sfalda. L’effetto estetico non è dei migliori, la texture è facilmente immaginabile, il sapore, beh, il sapore è indescrivibile: il mio personale “schifezzometro” indica il livello “moderato senso di nausea”.
I gamberi, persa anche questa corazza artificiale di farina e uovo, giacciono mesti ed inerti sul fondo della zuppiera, e solo un estenuante lavoro di scandaglio con le bacchette mi permette di individuarli e riportarne qualcuno in superficie; quasi li mangio per compassione.
Dopo qualche forchettata, mi correggo, “bacchettata” ci arrendiamo e chiediamo il conto.
Mentre mi infilo la giacca penso: “chissà se i noodles si sono annoiati per osmosi al contatto con la cameriera apatica? Chissà se Mariele ha voglia di “smezzarsi” uno di quei meravigliosi e giganteschi kebab di plaça del Rey?”.
La globalizzazione funziona e non funziona: il kebab me lo sono goduto, ma i noodles in brodo non li ho più mangiati.
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