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di M. Montanari
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L’ultima follia di Guido Pensato
Fuochi

Perché mai? Perché sempre!

La consumazione e la banalizzazione mediatica dei linguaggi tradizionali: verbali, iconici, sonori; la parallela distruzione o dispersione di senso dei contesti visivi e sonori urbani, naturali e paesaggistici, del vissuto visivo, estetico e immaginativo che producono e a cui fanno da sfondo, giunte ormai a stadi ciclicamente terminali, assegnano, rendendola inevitabile, automatica, una apparentemente ineludibile, oggettiva e più o meno palese cifra di complicità e di correità ad ogni discorso, ad ogni analisi, ad ogni gesto – “da chiunque e da qualunque parte provengano” – su parole che rinviino a fenomeni permanenti, ricorrenti, allarmanti in quanto riproducibili, rappresentabili. Per non parlare degli scenari – domestici o planetari, parentali o globali – di guerre pacificatrici o di paci guerreggiate. Prendiamo, perciò, la parola “violenza” (che tutto sembra attraversare e riassumere, indistintamente), in tutte le sue accezioni linguistiche e in tutte le modulazioni di significato ed “esecutive”. Si tratta di un fonema pieno di piccole e grandi cose, magari ugualmente orribili, ma ormai, il più delle volte, svuotato di senso, incapace di risuonare davvero nelle coscienze e di provocare echi, sconquassi, se non mediatici, rituali, o, tutt’al più, esorcismi collettivi. Al punto che si sarebbe tentati di tacerlo perfino quel nome, per provare a sperimentarne e praticarne il senso e ad indagarne le oscure scaturigini. Per esempio evocandone, classificandone, elencandone, mettendone in scena, sommandole, affastellandole, tutte le modalità, tutti i livelli possibili. Facendolo certo o dal versante strettamente e implacabilmente tassonomico, oppure – e pour cause - da quello (più rassicurante!?) - simbolico, allusivo, metaforico - dell’arte, delle arti (avendo ben presenti, per esempio, le “crudeli nefandezze”, le “nefaste crudeltà” del mercato), piuttosto che da quello del suo contenuto materiale, fattuale, “tecnico”. Provando, cioè, a farla risuonare tra gli artisti e il pubblico questa “cosa” indicibile perché diffusa, diluita nell’etere: tra onde e vapori soporiferi, anestetizzanti. Sopportando appena o riducendo al minimo, per quanto possibile e consentito dal terreno prescelto e praticato, i livelli di sublimazione e di evasione onirica. E, tuttavia, senza connivenze, condiscendenze, compiacimenti: ci si augura. Ma anche senza le ipocrisie atroci del quotidiano e senza mettere le briglie (come sarebbe, d’altro canto possibile?) alla iniziativa individuale e imponendo(si) e accettando, tuttavia, nel contempo, accanto ad una comune “prigione espositiva”, una “soluzione finale” simbolicamente liberatoria, come può accadere talora – chi può negarlo? – nell’esercizio della violenza (e, significativamente insieme, del gesto creativo, poetico, artistico). Nel tentativo di raccogliere segnali, sintomi del rapporto tra artisti e violenza: materia bruta o materiale estetico del/dal quotidiano? metafora o fondale? incubo da sublimare o esorcizzare? brandello sanguinolento dell’universo conosciuto/da (ri)conoscere? specchio deformato/nte della condizione umana, individuale e collettiva? aberrante insulto al cielo e alla terra? interferenza o apporto iconografico all’universo creativo?

 Guido Pensato arringa le folle sulla piazza rossa
Guido Pensato arringa le folle sulla piazza rossa

Si può provare, insomma, a provocare e sondare le risonanze della parola, della sostanza e della pratica della violenza (esercitata e subita) nel gesto, nella interpretazione-rappresentazione di un gruppo di artisti invitati a produrre e “sacrificare” un’opera per l’occasione di questa mostra e  disposti, pasolinianamente, alla “esposizione estrema”, al sacrificio totale dell’ego: esibito, violentato e, infine, distrutto: al “rituale ustorio”. Il tutto, nonostante tutto: non sotto il segno (il senso) di un autodafé individualistico, narcisistico, di un luddismo distruttivo e nichilistico, ma, al contrario, come ripresa e iterazione di un (anacronistico, velleitario, demodè?) tentativo collettivo, non vacuamente vitalistico ma consapevolmente vitale, di ri-conoscere e ri-considerare criticamente (ironicamente? drammaticamente?) - almeno per un istante, per l’istante di una mostra, di un progetto; almeno localmente ma in molti luoghi - i termini, i soggetti, gli oggetti, gli spazi, gli ambiti, le modalità del fare arte: quotidianità e “domesticità” della violenza comprese. Soprattutto rispetto alla pervasiva, irruenta e subdola “suggestione” del fitto reticolo di segni e gesti violenti che ci coinvolge e avvolge. E soprattutto rispetto alla “variabile” – dell’arte e della violenza – che chiamiamo “pubblico”. Contro una acquiescente accettazione dello status quo e per una moltiplicazione e riscoperta dei luoghi e degli strumenti di (un ancora possibile, rinnovato, rigenerante?) incontro sui territori della creatività e dell’arte. Anche “per mezzo di” e “grazie ad” una estrema risacralizzazione-ritualizzazione simbolica, ludica e insieme “popolare”, situata “tra due fuochi (e più)”: quello dell’otto dicembre, che si accende qui, in questo territorio, come in tanti altri, per la festa – pura e purificatrice – dell’Immacolata, quello del 17 gennaio, dedicato all’Abate Santo, Antonio e quelli del Carnevale.

 Fuochi
Fuochi

Lo spazio prescelto – uno spazio della stazione ferroviaria, da anni in disuso e che si ripropone e si  impone con forza per il suo radicamento nella storia della città e per la sua evidenza mai sopita; l’allestimento iniziale della mostra, una sorta di dialogo permanente tra opere, spazi interni ed esterni, funzioni, addetti, operatori, lavoratori e viaggiatori; la “performance-rito sacrificale” e l’allestimento conclusivo configurano, insomma, un percorso di riappropriazione, di riflessione, di riconoscimento, diretto a disconoscere il potere distruttivo delle visioni apocalittiche della storia e del presente – del mondo (e) dell’arte – per riaffermarne di positive, propositive, ironiche e creative.

Il gioco finale - collettivo e gioioso, popolare e ancestrale – affronta, lancia in resta e sul filo dell’ironia (disfacendolo), il sogno estremo dell’antimoderno: non solo negare il contemporaneo, ma distruggerlo, farlo scomparire, ridurlo in cenere; un sogno effimero che dura un istante, perché il contemporaneo, il presente evocano il moderno e lo fanno proprio, possono avere orrore della storia, ma non possono cancellarla, negarla. Il fuoco, il rogo generano l’allestimento finale, la esibizione dei “materiali di risulta”, che chiudono il cerchio (magico?) della creatività e dell’arte, del vedere e del rifiutarsi di vedere, del ricreare il visibile e il visto, lo scomparso e l’inesistente, lo smarrimento e il ritrovamento: l’invenzione.

 Ignoti 01
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